Disponibile su Netflix dal 19 luglio, la terza parte de La casa di carta ha già fatto record di visualizzazioni. Noi l’abbiamo vista e non solo ve la recensiamo, ma vi diciamo anche perché non è così esplosiva come le due stagioni precedenti.
Avete presente quando dovete scrivere un tema da consegnare in classe e, increduli, vi rendete presto conto che quello che la vostra mente ha architettato è qualcosa di veramente sorprendente, interessante, attrattivo? Insomma, sul foglio avete appena impresso il lasciapassare per la vostra promozione. I giorni passano e alla fine eccolo, il momento del giudizio: avete preso il massimo dei voti e i complimenti del professore che per voi sono preziosi tanto quanto un Emmy Awards, o un premio Oscar. Ma come ci ricorda Nelly Furtado “All good things come to an end” e così non fate in tempo a festeggiare con i vostri amici e genitori che sul registro compare – inesorabile – la richiesta di un secondo tema. Sorpresi e impreparati, riprendete in mano l’elaborato di successo e lo impiegate come carta carbone per questo nuovo progetto, reiterando passo dopo passo la stessa struttura e gli stessi passaggi del precedente. Facile no? Eppure, modifica dopo modifica, il cuore della vostra opera prima, la freschezza che tanto la rendeva unica vi fregherà tradendovi.
Un’attenta riscrittura della produzione precedente: ecco come può essere definita la terza parte de La casa di carta. Finita tra le mani di Netflix se da una parte la serie rafforza il comparto visivo attraverso una fotografia abbacinante e accecante, e una regia ineccepibile (si pensi solo al piano-sequenza iniziale, omaggio a quello portato sullo schermo da Alejandro González Iñárritu con Birdman) dall’altro la pedissequa riproposizione dello stesso sviluppo narrativo che ha fatto della serie ideata da Alex Pina un fenomeno di massa a livello mondiale, finisce per frenare il completo appagamento spettatoriale. L’autoreferenzialità metanarrativa che caratterizza questa nuova stagione, dopo l’iniziale rassicurazione rivolta al proprio pubblico circa il recupero di temi, personaggi e spirito di azione del tutto immutati dagli episodi precedenti, finisce poi per ostacolare un intreccio a volte zoppicante e ritrito.
La motivazione che spinge il Professore e la sua banda a occupare la Banca di Spagna risulta forzata. Ok Rio, ok all’indicibilità delle torture a lui inflitte (una non sottile denuncia lanciata dagli show-runner ai governi posti al di fuori dell’universo diegetico) ma quella della sua liberazione è una richiesta che non riesce a giustificare appieno l’attuazione di questo nuovo piano. La rapina ideata da Berlino e dalla new-entry Palermo molto prima di quella che ha reso la banda del Professore e dei suoi Dalì degli eroi della “nuova resistenza” non collima interamente con il trionfo precedente; tra i due piani sussistono dei vuoti, delle mancanze facilmente percepibili se si analizza la serie da un punto di vista puramente razionale. “Perché Palermo non ha fatto parte del primo piano se era così attaccato a Berlino e al Porfessore?”; “Perché i tre non hanno puntato direttamente su questo piano ma hanno virato su quello alla Zecca?”: questi non sono altro che solo alcuni dei dubbi che sorgono durante la visione di questa nuova stagione de La casa di carta, e il fatto di pensarci, di non essere completamente immersi nello sviluppo dell’intreccio dimostra che qualcosa è andato fuori strada.
La voglia di dare un seguito alle imprese del Professore e dei suoi fedeli Nairobi, Tokyo, Rio, Denver, Helsinki ha spinto gli sceneggiatori a trovare un escamotage abbastanza valido con cui giustificare la riformazione della banda; eppure tutto sembra essere intriso di un fortissimo senso di dèja-vu. Lo stesso Palermo si atteggia come il “fantasma della rapina presente” di Berlino (non ce ne voglia Charles Dickens per questo gioco di parole); la sua caratterizzazione maschilista ed esteta è perfettamente modellata su immagine e somiglianza di quella del personaggio di Pedro Alonso; nato con un enorme potenziale, Palermo si riduce troppo spesso a scimmiottare il suo adorato Berlino, quasi volesse in questo modo sopperire alla sua mancanza. Un gioco di specchi che finisce per far perdere di personalità e unicità al personaggio interpretato da Rodrigo de la Serna (già visto ne I diari della motocicletta). Una colonna sonora più internazionale e coinvolgente, in perfetta sintonia con la controparte visiva, una regia perfettamente studiata, l’alchimia tra gli interpreti sono ovviamente i punti di forza di questa nuova stagione; d’altro canto la presenza opprimente (sebbene meno invasiva rispetto a quanto vista prima) del romance da soap-opera pur risultando essenziale perché radicata nella tradizione televisiva della serie spagnola, continua a tirare brevi colpi di freno allo svolgimento della trama. Che sia chiaro: La casa di carta 3 non è un prodotto da evitare; se avete amato le prime due parti amerete anche questa; è innegabile constatare, però, che la voglia di riproporre lo stesso modus operandi delle prime due stagioni in chiave più internazionale se da un lato ha beneficiato alla resa finale dell’opera, dall’altro non ha fatto altro che sradicare questo prodotto dal suo cuore spagnoleggiante. Nate per Antena 3, nelle prime due stagioni de La casa di carta si viveva tutto lo spirito spagnolo che, nel bene e nel male, alimenta le produzioni iberiche giocate su un giusto equilibrio tra melodramma, romance e suspense. Uno spirito qui soffocato che fa di questa terza parte un buon prodotto, soprattutto nella sua resa visiva, ma del tutto ordinario e di già visto.
Concludendo: la storia si ripete, lo fa nella vita reale figuriamoci se non lo fa nel mondo dettato dal gusto spettatoriale. Trovato uno schema di successo sarebbe da pazzi allontanarsene; eppure a forza di nutrirsi dello stesso cibo, l’assuefazione e la noia sono destinate a farsi largo anche tra gli stomaci più allenati; un rischio che per il momento La casa di carta parte 3 ha deciso comunque di correre, salvandosi in extremis solo grazie a certi colpi da maestro (il cliffhanger finale vi lascerà a bocca aperta). Se questa volta l’effetto sorpresa che tanto ha caratterizzato la visione delle due parti precedenti non ha funzionato è semplicemente perché il pubblico sapeva già cosa gli avrebbe riserbato la mente del Professore. Dopotutto, quando mostri i meccanismi del tuo apparecchio a orde di spettatori ricettivi, capaci di apprendere in fetta i segreti del tuo gioco, finisce che ti incasini da solo. E così La carta di carta si ritrova impantanata nella stessa zona di stallo del suo Professore.
Elisa Torsiello per Radioeco