Dumbo: la recensione

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“Vola Dumbo, vola”. E il piccolo elefantino reso immortale dal cartone animato del 1941 è pronto a spiccare di nuovo il volo grazie a Tim Burton e al suo live-action dal 28 marzo in tutti i cinema. Qui la nostra recensione.

Dumbo

Che peso ha una piuma? Quello di una lacrima sgorgata dalla foce dell’infanzia e sospinta da traumi infantili. Dumbo di Tim Burton è una montagna russa lanciata a ritroso verso i ricordi di gioventù, che corre veloce sul nastro più o meno consumato della VHS originale del classico Disney. Negli occhi azzurri del piccolo elefantino si riflette lo schermo di casa davanti a cui ci lasciavamo incantare e – diciamolo – traumatizzare. Favorito dal background di chi il piccolo Dumbo lo ha visto nascere nelle sue forme colorate in 2D, il live-action di Burton vola in alto, fa mille capriole, aiutato dal vento dell’immaginazione e dagli applausi di tutti quei freak che hanno abitato l’universo cinematografico del regista americano. Non vi era regista migliore di Burton per (ri)dar vita a questo classico Disney. Da sempre vicino agli emarginati, ai derisi, a coloro che vengono allontanati perché considerati “mostri” o “diversi”, il regista di Beetlejuice dona loro voce sotto forma di poesia. Una rivincita personale sulle vere brutture del mondo reale, giocata con la forza della purezza e della bontà di cuore. Dumbo era dunque la perfetta aggiunta alla galleria di personaggi unici e stravaganti portati in scena da Burton; il trampolino di (ri)lancio di una carriera arrestata da uno stile visionario che ha perso la bussola cadendo nel più angoscioso anonimato (si pensi a Big Eyes).

DumboIl regista ricerca la propria vena autoriale in quell’universo circense, habitat perfetto di fenomeni curiosi e stra-ordinari che tanto incuriosiscono gli occhi fanciulleschi di questo regista sessantenne. Il circo dei fratelli Medici è il fratello immaginario di quello gestito da Amos Calloway in Big Fish (non a caso entrambi i circensi sono interpretati da Danny DeVito) con la differenza che se quello immortalato nel 2003 era abitato da figure rocambolesche e al limite del fantastico, quello di Maximilian Medici è colmo di tenerezza per la nascita di questo cucciolo dalle orecchie giganti. Perfino dietro la scelta di modificare il tessuto narrativo originale, togliendo la parola agli animali e umanizzare lo spettro d’azione riempendolo di “homo sapiens” (manca all’appello il topo Timoteo, unico amico di Dumbo nel cartone del ’41) si scorge in lontananza la vera anima artistica di Burton. Immettendo in prima linea uomini, donne e bambini pronti a interagire amichevolmente con il piccolo pachiderma, fino a liberarlo dalle grinfie di Vandemere, il regista facilita il processo di immedesimazione spettatoriale così da far scattare nel proprio pubblico un sentimento di compassione e altruismo che spesso viene dato per scontato, o addirittura sentito come affievolito. L’essere umano non è solo il villain della situazione, ma anche l’aiutante del piccolo animale. Una visione ambientalista e indirizzata alla salvaguardia degli animali che Burton non ha paura di esplicitare arrivando addirittura a trasformare l’isola dei sogni e del divertimento – Disneyland – in una gabbia di incubi e traumi (e se Dumbo non era abbastanza, a dominare l’avanspettacolo di Dreamland ci sono anche gli elefanti rosa di Fantasia sotto forma di bolle di sapone). Il personaggio di Michael Keaton si traveste allora in una mefistofelica versione di Walt Disney (ad avvalorare questa analogica ci pensano slogan e massime molto simile al patron della Disney, come “non farti dire a nessuno cosa non puoi fare”, o “tutto è possibile”) con la differenza che al posto di regalare sogni, Vandemere li baratta in cambio delle anime dei propri avventori e collaboratori.

Eppure, non tutto sembra favorire questo volo pindarico del piccolo elefantino. Burton riesce sì a emozionare, ma lo fa resuscitando un ricordo nostalgico dal sapore di infanzia perduta. I primi piani sul piccolo Dumbo, le inquadrature ravvicinate sui suoi tristi e curiosi, i dettagli della sua proboscide avvinghiata a quella della madre in gabbia, acutizzano il senso di pericolo, o struggente malinconia che dominano sullo schermo. Ma sono sentimenti che lo spettatore già conosce, perché vissuti e poi nascosti negli antri più bui della propria memoria personale dopo la visione del cartone animato del 1941. Burton non ha fatto altro che risvegliarli magicamente, proprio come l’incantatore di serpenti ammalia il proprio rettile durante lo spettacolo circense.
Dietro a colori sgargianti, una regia dinamica, e una CGI impeccabile, si nasconde un impianto visivo perfettamente costruito, ma scevro di quell’artigianalità e poesia che caratterizzava le opere precedenti di Burton. Sebbene le innovazioni apportate alla storia originale offriranno un nuovo contenuto da innestare nell’immaginario delle nuove generazioni di spettatori sotto forma di un nuovo (ma allo stesso tempo vecchio) trauma infantile, il Dumbo di Tim Burton scivola rovinosamente su una struttura narrativa pregna di retorica, frasi fatte e battute forzate. L‘impianto visivo, così ben studiato in modo da sembrare il più reale possibile, non è supportato da una degna sceneggiatura. Le parole escono dalla bocca dei piccoli – ma già maturi – figli della ex star del rodeo Holt Farrier (un carismatico, ma a volte non totalmente in parte, Colin Farrell) distrattamente, come se i due non credessero veramente in quanto espresso. A niente varrà l’ottima performance di Eva Green  e Danny DeVito; se mancanti di una sceneggiatura forte e ben scritta, l’interpretazione di grandi attori non potrà raggiungere le vette a cui essa aspirava (e meritava).

Sebbene non ai livelli asfissianti in cui vergeva durante la realizzazione del live-action di Alice in Wonderland, l’estro di Tim Burton si trova ancora una volta soffocato dal potere della Disney. Sorprende constatare quanto la sua visione della realtà, così poetica, così freak, si sia allineata a quella del mondo ordinario. Lui, che già una volta si era allontanato dall’universo disneyano perché poco interessato a disegnare “creature graziose e ammiccanti”, è ora legato a quel mondo a cui già una volta, dopo Red & Toby, aveva rivolto le spalle. E così, alle lacrime per la commovente storia di Dumbo, si aggiungono quelle per un ritorno alla vera poetica autoriale di un regista che ancora una volta non è del tutto tornata a casa.

Voto: 7-

Elisa Torsiello per Radioeco