Giovedì 18 ottobre al Cinema Arsenale abbiamo seguito la presentazione del libro “Joe Wright. La danza dell’immaginazione, da Jane Austen a Winston Churchill”, scritto dalla nostra Elisa Torsiello; la prima monografia a trattare l’opera di uno dei registi più originali del nuovo secolo, arricchita dalla prefazione del pisano premio Oscar Dario Marianelli e dalla postfazione di Seasmus McGarvey, ospite della serata.
Se avete letto di Cinema su queste pagine, avrete già avuto modo di conoscere Elisa Torsiello, attraverso i suoi articoli o quelli passati per il suo setaccio.
Per quanto sia difficile indicare una singola ragione per le proprie grandi passioni, forse nessuna di quelle righe sarebbe mai stata scritta se un giorno del 2006 Elisa non si fosse imbattuta per caso in Orgoglio e Pregiudizio, primo lungometraggio diretto da Joe Wright, facendo nascere un amore che sarebbe poi esploso con Espiazione, forse l’opera più riuscita del regista, la cui fotografia sarebbe valsa la prima nomination all’Oscar a Seamus McGarvey, da lei indicato con emozione e senza esitazione come un’altra delle figure che l’hanno spinta a voler scrivere di Cinema.
Una volta sul palco il padrone di casa Antonio Capellupo ha rilevato come data l’attenzione del regista londinese per la caratterizzazione delle figure femminili dei suoi film, non potesse essere un caso che la prima monografia dedicatagli avesse proprio la firma di un’autrice. La discussione è poi proseguita toccando il tema dell’infanzia di Wright, i cui echi sono rintracciabili nella sua poetica fino a quasi ogni sua inquadratura: un bambino figlio di burattinai, dislessico e per questo vittima di bullismo, che affida in un certo senso il proprio riscatto ai personaggi che porta sullo schermo, con una cura da artigiano che lo rende in grado di ben figurare anche quando ha a disposizione budget minori. Come ci racconta McGarvey – coadiuvato dalla traduzione di Michele Innocenti, vicedirettore del FIPILI Horror Festival – un caso emblematico è Anna Karenina, pensato originariamente come un dramma in costume classico e poi proprio per motivi di budget quasi totalmente reimmaginato e trasposto in versione teatrale, comportando uno stravolgimento che è andato dal copione fino alle scenografie, ma che alla fine anziché risultare un compromesso è andato a costituirne una delle peculiarità.
Si è poi parlato del titolo: Joe Wright. La danza dell’immaginazione, da Jane Austen a Winston Churchill, che si rifà al danzare della macchina da presa, e viene in mente l’immenso piano sequenza di Dunkerque in Espiazione, dove visitando la scena attraverso lo sguardo della macchina si attraversano una molteplicità di sensazioni ed emozioni e si mischiano oggettività e soggettività. Ma è come se Wright volesse coreografare anche la semplice chiusura di una porta o l’atto di accendere una sigaretta, coi dettagli della mano che insieme agli specchi e alle inquadrature degli occhi sono dei classici nell’estetica dei film di Wright e McGarvey in particolare.
Seamus McGarvey raccontando della sua sua lunga collaborazione con Wright – che definisce il suo migliore amico – ha posto il rilievo sull’importanza di lavorare come una famiglia sul set, che risulta utile specie quando inevitabilmente si genera tensione ed è importante potersi parlare con franchezza. Famiglia che include naturalmente anche Keira Knightley e Dario Marianelli, premiato con l’Oscar proprio per Espiazione.
Dopo l’insuccesso di Pan che aveva provato il regista fino a metterne in dubbio la stessa motivazione, il sodalizio tra i due è proseguito lanciandosi in un progetto diverso, per il piccolo schermo e per la prima volta per Wright filmando in digitale, con l’episodio che ha aperto la terza stagione di Black Mirror: l’inquietante Caduta Libera (Nosedive), caratterizzato visivamente dai colori pastello e dalla luce intensa dell’estate sudafricana che ha fatto da sfondo alle riprese. Una scelta visiva particolare per un horror psicologico, con un basso contrasto e dei colori talmente dolci da sembrare marci, a fare da riflesso ai sorrisi entusiasti e ipocriti che si scambiavano i personaggi, nello sforzo di farsi strada in una società distopica regolata dal livello di apprezzamento con cui le persone si valutano reciprocamente.
Nonostante il buon riscontro dell’episodio, il pubblico attendeva Joe Wright al banco di prova del grande schermo. Lo convinse la sceneggiatura di un biopic molto particolare su Winston Churchill, focalizzato su un lasso di tempo estremamente ristretto, ma scoprì solo in seguito che Christopher Nolan stava già lavorando a Dunkirk, basato sulla stessa vicenda e che sarebbe uscito con mesi di anticipo, col rischio di trovare un pubblico già stanco. Ma come racconta Elisa Torsiello, dalla primissima inquadratura di L’Ora più buia era già possibile dirlo: Joe era tornato. L’aula del Parlamento il cui spazio prende vita con una discesa della camera, la luce che filtra, l’importanza della mani, e più avanti altri richiami come lo specchio e la macchina da scrivere, a fare da cornice all’enorme interpretazione di Gary Oldman, un Churchill che abbandona lo schermo senza mostrarci una sola immagine dell’evacuazione di Dunkerque, come se Wright volesse chiudere il cerchio riportandoci con la mente alla Dunkerque che ci aveva già regalato.
Federico Erittu per RadioEco