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Caffè letterario- L’esilio nella letteratura

Un “tuffo” nell’esilio

Se il mondo fosse il mare, l’esilio sarebbe l’ancora a cui si è vincolati, le cui catene costringono ad essere soffocati dalle forze dell’abisso, anchilosati dall’angoscia e inadeguatezza che sorgono dall’essere strappati dal proprio porto sicuro. Nel non scorgere più un faro, la percezione della morsa delle catene appare più serrata. Non vi è più abbastanza luce per ricordarsi che aspetto si abbia, i tratti del viso si smussano con la corrente e con essi scivola anche l’identità. Ciechi in mare, si perde un’identità che si rivela essere parziale. Pertanto, è solo dopo essere stati privati del senso di appartenenza alla patria che si comincia il viaggio della solitudine, che conduce alla conoscenza di sé stessi.

Il vagabondaggio di Foscolo

Ritratto di Ugo Foscolo di François-Xavier Fabre, 1813

Ne “In morte al fratello Giovanni” anche Ugo Foscolo, attraverso la metafora “di gente in gente” è sopraffatto dal senso di lontananza e perdizione dell’esilio, in analogia con il suo vagabondaggio tra Italia, Francia e Inghilterra. Composto tra il 1802 e 1803, il sonetto è stato scritto in occasione della morte di Gian Dionisio, chiamato Giovanni e apostrofato come “o fratel mio”, il quale morì suicida probabilmente per debiti di gioco o accusa di furto. La poesia si articola in due strofe quaternarie a rima alternata e due strofe ternarie a rima incatenata. I versi endecasillabi attribuiscono alla lirica un ritmo frammentario, ricordando i singhiozzi di un pianto. Eppure, questo dolore non resta riservato al fratello, ma assume una determinata connotazione simbolica: la resa della forzata alienazione familiare, sempre aleggiante sulla figura dell’autore. Egli, invero, è sottratto prima dalla terra natia, dagli affetti, dalle gioie delle aspettative politiche e persino da una lingua propria, scatenando i primi moti di un senso di sradicamento ( i cui apici espressivi risiedono soprattutto in “A Zacinto” e “Alla Sera”).

L’arte di perdersi per ritrovarsi

Lontano da casa, dentro sé stessi

Si può dedurre che l’esilio non sia definito unicamente dalla decisione dello Stato di allontanare una figura scomoda; nella letteratura, questo allontanamento assume diverse sfumature, pur conducendo a un’unica e profonda conseguenza poetica. Difatti, l’isolazionismo è un concetto la cui definizione e cause si riformulano nel tempo al mutare della società e delle norme che essa impone. E il poeta, al variare di questi criteri, è l’unica costante: vittima dell’esclusione a cui è condannato e beneficiario di una nuova produzione poetica. Così, sebbene isolato, è comunque rimasto il vate interpretatore della società, affascinato dai suoi problemi e dalle sue tradizioni, narratore delle sue contraddizioni. Ed è attraverso la fecondità letteraria che i poeti, pur restando alla penombra dello spettacolo della vita di cui vorrebbero disperatamente fare parte, giungono alla luce. In maniera più concisa, l’esilio è lo strumento per la manifestazione di una “mancanza”, una nuova accezione di “appartenenza” su cui si è costretti a riflettere al di là dell’istituzione identitaria di riferimento e della colpa da essa attribuita (infatti, per istituzione identitaria di riferimento si può intendere, oltre allo Sato, la società, la famiglia, sé stessi).

Due penne in esilio: Seneca e Dante

Alcuni esempi dell’esilio nel valore tradizionalmente inteso nella letteratura (attribuiti dallo Stato) sono Seneca e Dante. Infatti il primo viene allontanato dall’imperatore Claudio, per adulterio con Giulia Livilla, in Corsica, ove si accinge a scrivere la consolatio ad Helviam matrem, per rassicurarla sulla sua condizione di esule, che venne vissuta in realtà positivamente perché gli consentì di dedicarsi all’otium contemplativo e la consolatio ad Polybium (per la quale venne accusato di un tentativo di adulazione).

Mentre il secondo si ritrova esiliato per baratteria, causa infondata, che determinerà una peregrinazione eterna. Questa è segnata da profondi traviamenti testimoniati sia nel Convivio, riferendosi al suo “mendicare”, che nella Commedia, ove Dante crea una costellazione di riferimenti ascendente. Anteriormente nell’Inferno, per mezzo delle figure di Ciacco e Brunetto Latini, i quali, in momenti differenti, descrivono la decadenza che incombe su Firenze e l’avversario Vanni Fucci, che augura e profetizza l’esilio dantesco. Poi nel Purgatorio, tramite Corrado Malaspina, che gli annuncia l’accoglienza della sua famiglia, e Forese Donati, che prevede la morte del fratello Corso, capo dei guelfi neri e “rovina” di Firenze. E infine nel Paradiso, nel quale il trisavolo Cacciaguida funge da esplicatore ultimo di ogni profezia, accusando papa Bonifacio VIII.

Esilio interiore tra ricordi abitati e memorie abbandonate

Poi, ad essere annoverati fra altri tipi di esili, si distinguono l’esilio “del” ricordo e l’esilio “nel” ricordo. Ordinatamente, il primo vieta la possibilità di ogni legame del soggetto con ciò che lo lega al passato, con ogni forma di memoria. L’editto di Saint-Cloud, affrontato da U. Foscolo ne “I Sepolcri”, potrebbe esserne un esempio, in quanto per via dell’esclusione delle tombe dai confini cittadini, viene negato il diagolo tra vivi e morti. D’altro canto, il secondo è opposto al primo, poiché esprime un ossessivo attaccamento al ricordo, come fosse l’unico appiglio al fantasma di un’identità o un sentimento significativo che hanno preso luogo in un tempo passato, come in “Chiare, fresche et dolci acque” di Petrarca, il quale resta intrappolato nella memoria della donna amata.

Esilio dell’anima: io in fuga, straniero a sé stesso

In seguito, addentrandosi ancora nel percorso del tema dell’esilio, questo può anche essere imposto dalla società al poeta (come dimostrato da Baudelaire e la famosa perdita dell’aureola) oppure può essere prescritto dall’umanità stessa attraverso atti di spietatezza, quali la guerra. Essa costituisce un solido esempio di perdita del diritto all’umanità, un esilio dalla fragilità e solidarietà che ne derivano. Pertanto, una volta coinvolti in essa, si sopravvive da vagabondi erranti deturpati nella propria natura, esuli da ogni senso positivo correlato ( manifestato da Ungaretti come costante della raccolta “Dolore” e da Montale ne “La Bufera ed altro”).

Infine, l’ultima rappresentazione dell’esilio è quella che si dispiega nel momento in cui la propria persona diventa l’istituzione identitaria di riferimento ad imputare come esiliato sé stessa. L’inadeguatezza alla società innesca nel poeta la necessità di disconoscersi da essa e identificarsi in altro, dando luce, nel ‘900, alla figura dell’inetto. Di conseguenza, emerge il sentimento di sradicamento, che riaffiora nella nostra contemporaneità con l’avvertimento dell’indifferenza, presente in Pavese ne “La casa in collina”, oppure in Moravia con “Gli Indifferenti”.

Dunque, in seguito alla geremiade e perdizione iniziale, la caligine si dissolve per dare spazio all’immaginazione poetica e bruscamente ritorna la luce insieme ai tratti di un viso nuovo, illuminato dal vascello di fecondità letteraria, fecondità dell’anima: nuova bussola del “(…) naufragar (…) dolce in questo mar” (Giacomo Leopardi, Idilli, Infinito).

Autrice: Giulia Giuffrida

Mi presento: sono Giulia, siciliana a Pisa da quasi due anni, studio Filosofia e quando ho carta e penna o un libro tra le mani riesco a perdere la concezione del tempo (come quando gioco con la mia cagnolina Maya). Scrivo per la rubrica Caffè Letterario, se ti va clicca qui per leggere il mio ultimo articolo!

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