(ma il pubblico è distratto e non se ne accorge)
Il 13 marzo 2025 è uscito La città proibita, ultima fatica di uno dei registi italiani più amati in patria e all’estero. La figura di Gabriele Mainetti è molto particolare, e nel corso di questo articolo cercheremo di sviscerarla.
Ma chi è Gabriele Mainetti?
Gabriele Mainetti nasce a Roma (che è centrale all’interno dei suoi film) nel 1976. Inizialmente percorre la carriera attoriale, per poi iniziare a dirigere dei cortometraggi dopo aver capito che, dato che non sa piangere a comando, non potrà fare l’attore per tutta la vita (come ha affermato in qualche intervista, non senza ironia).

Debutta alla regia nel 2003 col cortometraggio Itinerario tra suono e immagine; dirigerà un totale di 6 corti prima di Lo chiamavano Jeeg Robot, il suo primo lungometraggio di cui ci occuperemo tra poco. Anticipiamo che, come si capisce dal titolo, Lo chiamavano Jeeg Robot si rifà a un immaginario della serialità animata giapponese. Questa caratteristica è anticipata dai due cortometraggi più di successo di Mainetti, di cui mi piacerebbe parlare ora.
I primi cortometraggi: Basette e Tiger Boy
Basette (2008) è il primo corto del regista romano che vede un cast stellare (Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Flavio Insinna, Luisa Ranieri) e che si pone come un omaggio alla serie prima manga e poi anime Lupin III. Questa serie culto giapponese ha avuto grandissimi nomi come autori: in primis Monkey Punch, ma anche Hayao Miyazaki (sì, quel Miyazaki) e Takeshi Koike. Basette, dunque, è la storia di Antonio, un ragazzo cresciuto tra una famiglia di ladri e ladruncoli e gli episodi di Lupin. Per questo, una volta adulto, il suo mondo prenderà la stessa forma di quello del ladro giapponese: il suo rivale, un ispettore di polizia, sarà una versione coatta di Zenigata; i suoi compagni degli spacciatori uguali a Jigen e Goemon; la sua compagna una bora che ricorda Fujiko. Questa doppia lettura della realtà e dell’immaginario rendono questo corto di 16 minuti veramente interessante: c’è un continuo passaggio tra occidente e oriente a livello di scrittura, regia, dialoghi e comicità, quasi incontrollato. È chiaramente un corto molto ingenuo, ma è proprio questa la sua forza, visto anche che il suo protagonista è rimasto un bambinone e che ha formato il suo mondo intorno all’immaginario visivo di Lupin III per i ricordi che ne porta. All’interno di questo corto, poi, c’è del puro fan-service per il pubblico italiano: Giallini che fa Jigen è perfetto, c’è una citazione a Gigi Proietti e al suo Cavaliere Nero che arriva silente ma fa morire dal ridere per il contesto in cui viene detta, Insinna-Zenigata è veramente strano ma divertentissimo. Trovate questo corto qui, il nostro consiglio è di recuperarlo.

Il secondo corto che guarda all’oriente in un ambientazione romana è Tiger Boy, del 2012, che già dal titolo è una citazione a L’Uomo Tigre; anche questo è un manga e un anime culto degli anni ‘60-’70-’80 (in Italia vediamo le cose anni dopo la loro uscita mondiale), con protagonista un wresler con una maschera da tigre (per capirne di più trovate qui la pagina Wikipedia). Tiger Boy è la storia di un bambino che, come molti altri, è appassionato di wrestling e, in particolare, del wresler Il Tigre, di Corviale. Ma Tiger Boy è anche la storia di molestie dei maestri nei confronti dei bambini e del soft-power, situazioni da cui si può uscire soltanto con degli ideali e degli idoli. È su questo che si basa questo corto di 20 minuti: meno orientalizzante rispetto a Basette, più cupo e più “impegnato” (termine insopportabile ma che qui casca particolarmente bene), e anche un po’ più maturo. Lo trovate qui.

Lo chiamavano Jeeg Robot: Quando lo spaghetti-superhero incontra Tor Bella Monaca

Nel 2015, Gabriele Mainetti ha fatto quello che nessuno si era mai davvero azzardato a fare: ha preso un pezzo di mitologia pop giapponese, lo ha impastato con il degrado urbano di Tor Bella Monaca, ci ha aggiunto una spruzzata di neorealismo romano, una manciata di superpoteri da bidone tossico e una buona dose di disperazione. Il risultato? Lo chiamavano Jeeg Robot, ovvero il primo film italiano di supereroi che non fa ridere per sbaglio. La storia è quella di Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), piccolo criminale di borgata, scorbutico e solitario come un gatto randagio col diabete, che un giorno cade nel Tevere e si ritrova con una forza sovrumana, stile Hulk ma con la faccia da lunedì mattina. A fargli da spalla, involontaria e teneramente svitata, c’è Alessia (Ilenia Pastorelli), una ragazza traumatizzata che ha sostituito la realtà con le repliche di Jeeg Robot d’acciaio. Il vero colpo di genio, però, non è l’ambientazione né l’omaggio agli anime anni ’70, ma il villain: Luca Marinelli nei panni dello Zingaro, un criminale megalomane che canta Anna Oxa prima di fare una strage. Un Joker con l’accento romano e la sensibilità di un tronista sotto acido. Marinelli si prende la scena che per un attimo ci scordiamo che il protagonista è Santamaria.
Mainetti dirige il tutto con una sicurezza da veterano, infilandoci dentro citazioni cinefile, una colonna sonora che passa da Frizzi a Morricone senza perdere un colpo, e una regia che sa essere sporca e poetica allo stesso tempo. Ma soprattutto, riesce a trasformare una storia assurda in un racconto sincero, dove i superpoteri servono più a proteggere la propria umanità che a salvare il mondo.
Freaks Out: Il circo, la guerra e i superpoteri che nessuno aveva ordinato (ma che ci volevano)

Con Freaks Out (2021), Gabriele Mainetti ha deciso di alzare la posta. Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, che aveva già mescolato cinecomic e sottoproletariato romano come un barman pazzo, qui ha preso la Storia — sì, quella con la “S” maiuscola — e le ha dato una spinta sotto il mento con una manciata di freak da baraccone dotati di poteri speciali. In pratica: X-Men nella Roma occupata dai nazisti, ma con più toppe, pidocchi e accenti italiani veri. Il film racconta la storia di quattro fenomeni da circo: Matilde (Aurora Giovinazzo), ragazza elettrica che fulmina tutto tranne i propri traumi; Cencio (Pietro Castellitto), signore degli insetti e dei monologhi surreali; Fulvio (Claudio Santamaria, peloso e tragico), un forzuto leopardato che sembra un Wolverine in versione barocca; e Mario (Giancarlo Martini), nano calamita con la tenerezza di un peluche rotto. Insieme cercano di sopravvivere alla Seconda Guerra Mondiale, che già di suo è poco accogliente, ma nel frattempo devono anche sfuggire a Franz, un pianista nazista con sei dita e il sogno di diventare Hitler 2.0 grazie ai poteri paranormali.
Mainetti confeziona il tutto con una regia ambiziosissima, fatta di piani sequenza spettacolari, effetti visivi che non fanno rimpiangere Hollywood (per una volta), e un gusto per il grottesco che ricorda Fellini, Del Toro e un po’ di De Sica dopo una notte brava. Il film è un’orgia di generi: dramma storico, fantasy, commedia, tragedia, e pure un po’ di musical (sì, c’è una cover dei Radiohead cantata da un manipolo di nazisti epilettici, e funziona sorprendentemente bene). Ma sotto la superficie ipercinetica e visionaria, Freaks Out è una storia di emarginati che cercano un posto nel mondo, o almeno un momento di dignità in mezzo al caos. È un film che grida: “Anche i mostri hanno un cuore”, ma lo fa mentre lancia fulmini, insetti e granate. E funziona, maledettamente bene.
Mainetti dimostra ancora una volta che il cinema di genere, se fatto con cuore e coraggio, può parlare di tutto: di guerra, di diversità, di speranza. Anche quando lo fa con un nano che attrae cucchiai.
La città proibita: un po’ Califano un po’ Jackie Chan, con un pizzico di Tarantino

Infine, arriviamo da dove siamo partiti: il 13 marzo 2025 arriva finalmente in sala La Città Proibita (qui il trailer). In questa pellicola siamo a Roma, nel quartiere dell’Esquilino, dove mafia romana e mafia cinese si contendono i ristoranti della zona. È in questa cornice che conosciamo Marcello, cuoco e proprietario di un ristorante di cucina romana, e Xiao Mei, una ragazza cinese venuta in Italia a cercare la sorella, scomparsa dai radar da anni. Tra un Giallini che interpreta il boss della malavita romana Annibale e una Ferilli che invece è Lorena, la madre di Marcello, questa storia è descrivibile con 3 parole (come l’ha descritta Mainetti stesso): action, amore e Roma.
È un film che ha molto del cinema orientale, con tantissime scene di arti marziali girate da manuale, ma che non sarebbe lo stesso se non fosse ambientato nell’Esquilino, quartiere conosciuto fino al midollo dal regista, e questo è un carattere importantissimo. Siamo davanti quindi all’antitesi del cinema del non-luogo, un cinema della realtà multiculturale in cui questa è protagonista stessa della storia. Sembra che da un momento all’altro debbano uscire dal ristorante cinese Franco Califano e Jackie Chan.

La storia d’amore è semplice e poco retorica, senza fronzoli e senza troppe smancerie. Siamo nell’ambito anche qui di un mix di generi e temi: dalla legge cinese sulla natalità alla malavita e le sue influenze sulle attività, agli amori impossibili (quasi un Romeo e Giulietta); sempre nella dimensione di un melting pot che, in questa pellicola, è proprio il tema centrale.
La scelta degli attori e il lavoro che hanno fatto sui personaggi è impressionante, e rispecchia a pieno la filosofia di Mainetti sul lavoro attoriale: l’attore, più che il regista, si deve prendere la responsabilità del personaggio. Per questo Marco Giallini e Sabrina Ferilli interpretano personaggi lontani dai loro soliti lavori, ma sono comunque molto credibili e molto bravi. È quindi un lavoro opposto al metodo Stanislavskij, in cui l’attore non si deve immergere nel personaggio seguendo le indicazioni del regista, ma deve dare una sua “interpretazione” di esso e che deve convincere il regista.
Perché Gabriele Mainetti ci piace così tanto?
Il cinema di Mainetti è un cinema estremamente pop: storie semplici, personaggi estremamente memorabili e particolari (soprattutto parlando di Freaks Out), ambientazioni familiari (soprattutto per chi vive a Roma) e linguaggio semplice (soprattutto per chi vive a Roma, ancora). I temi sono spesso quelli degli ultimi, coloro che hanno perso tutto o che non lo hanno mai avuto, ma che grazie a degli ideali, a degli eroi o a degli idoli riescono a vincere chi li sta opprimendo. La collaborazione è più che centrale in queste storie: i personaggi in tutti i film e nei corti del regista romano si compenetrano e si completano.
Questi sono alcuni dei motivi per i quali siamo così ammaliati dal cinema di Mainetti, perché ogni volta che escono in sala i suoi film sono tra i più discussi e visti.
Una nota dolente: gli incassi…
Ora si apre un capitolo un po’ buio, che ha bisogno di qualche premessa: un film o una carriera non si giudica rispetto (o almeno, non solo) agli incassi. L’elenco di film che non hanno incassato quasi nulla per poi diventare grossissimi cult è infinito (in questo articolo di qualche anno fa Wired ne elenca 50), quindi è un discorso un po’ fine a se’ stesso. Bisogna però annoverare il fatto che, a fronte di grossissimi budget, Freaks Out e La città proibita hanno incassato molto meno del previsto.
Ci sono da fare ancora delle premesse, prima di poterci ragionare a modo: Freaks Out è uscito in periodo pandemico, quindi i suoi bassi incassi sono sicuramente viziati dalla situazione generale del cinema italiano; e La città proibita, nel momento in cui sto scrivendo queste righe (aprile 2025) è ancora in sala. Nonostante ciò, i risultati che hanno e che stanno raggiungendo sono al di sotto delle aspettative.
Ma perché questo? D’altronde, Lo chiamavano Jeeg Robot, al contrario, al botteghino aveva ampiamente superato il budget di produzione. La risposta non è chiara nemmeno a me, ma ho una convinzione: se fossero stati film prodotti in America sicuramente il risultato economico sarebbe stato molto diverso. Non per fare il critico con gli occhiali, la sciarpina e la polo, ma è indiscutibile che il pubblico generalista (che è quello che manda avanti i cinema) ha un grosso bias di pregiudizio verso il cinema italiano, soprattutto se di genere. Infatti, quando un film italiano entra nel circuito del passaparola poi non ce ne liberiamo per anni (Perfetti Sconosciuti, i film di Ozpetek o di Sorrentino, C’è ancora domani). Attenzione, il mio non è un giudizio qualificativo, quelli che ho appena citato sono dei grandi film, ma un analisi antropologica/demografica fatta da un non-antropologo e non-sociologo. Però questo è il meccanismo tramite il quale i film italiani riescono a incassare e a portare gente in sala. Consiglio di informarsi sulla storia de La Chimera, il film di Alice Rohrwacher di due anni fa che, di fronte a una pessima distribuzione iniziale, ha portato a un “insurrezione popolare” (esagero volontariamente) grazie alla quale poi ha ricevuto una buona distribuzione nelle sale.
Ma quindi perché Mainetti non è più protagonista di questo meccanismo? Eppure Lo chiamavano Jeeg Robot aveva fatto un grande passaparola ed è diventato un cult per una generazione di italiani. Ecco, io non ho una risposta, e se voi invece ce l’avete vi chiedo di scrivermela. D’altronde, come afferma Mainetti stesso in alcune interviste, le domande sono molto più interessanti delle risposte.
Mainetti fa cinema di genere? Ma prima, che è il cinema di genere?
Il cinema di genere è un tipo di cinema che si basa su schemi narrativi, tematiche e convenzioni riconoscibili, tipiche di un determinato “genere”. Questi generi possono includere azione, horror, commedia, fantascienza, thriller, western, e molti altri. Il pubblico si aspetta certi elementi, ma il film può comunque aggiungere un tocco personale, innovativo o creativo, spesso attraverso regia, stile visivo o interpretazione.

È ormai diventata una domanda da cineforum alle 23: “Ma Mainetti fa cinema di genere o no?” Una di quelle questioni che scatenano dibattiti accesissimi tra chi mangia popcorn e chi cita Bazin. La risposta breve sarebbe: sì, ovviamente. Ma poi ci ripensi e ti viene da dire: ecco, magari non solo. Perché Mainetti, tecnicamente, sta dentro al genere fino al collo: Lo chiamavano Jeeg Robot è un cinecomic con tanto di supereroe riluttante, villain sopra le righe e origini radioattive. Freaks Out è un war fantasy con superpoteri, ambientato durante l’occupazione nazista, dove la parola “realismo” entra solo per sbaglio e con la coda tra le gambe. Ci sono mutazioni, esplosioni, inseguimenti, effetti speciali. I generi, sulla carta, ci sono tutti.
Eppure, c’è qualcosa che sfugge. Perché Mainetti prende il genere e lo mastica come una Big Babol: lo gonfia, lo stravolge, ci fa le bolle e poi le fa scoppiare in faccia allo spettatore. Il cinecomic diventa romanzo criminale; il war movie diventa dramma esistenziale con inserti da circo felliniano. Il genere è la forma, ma non è mai il fine. Quello che fa Mainetti, in fondo, è prendere i codici del cinema popolare e usarli per raccontare storie profondamente umane, marginali, spesso tragiche. I suoi eroi sono poveracci, mostri, reietti. Il superpotere non serve a dominare il mondo, ma a sopravvivere alla propria solitudine. E in tutto questo, ci infila una regia ambiziosa, una cura maniacale per il suono, le musiche, gli attori. Troppa finezza per essere solo “genere”.
Insomma, Mainetti fa cinema di genere. Ma non come lo intende l’etichetta: lo fa con l’anima del cantastorie e l’occhio del cinefilo pazzo. È un genere tutto suo. E forse è proprio questo, il suo vero superpotere.
Conclusioni
In conclusione, dire se quello di Gabriele Mainetti sia cinema di genere o no è forse la domanda sbagliata. O meglio, è una domanda che ha bisogno di essere riformulata: Mainetti usa il genere, lo attraversa, ci gioca, lo omaggia e lo reinventa. Ma non si ferma lì. Ogni volta che sembra muoversi dentro i confini di una classificazione precisa, li supera con un guizzo autoriale. Il suo è un cinema che parte dal pop e arriva dritto al cuore, che parla la lingua dei fumetti, degli anime e dell’action asiatico, ma con l’accento romano e un’anima tutta italiana. È un cinema che si sporca le mani con la realtà e poi la trasfigura in favola, in tragedia, in mitologia urbana. Mainetti fa cinema di genere? Sì. Ma lo fa come nessun altro in Italia, e forse anche altrove. In questo, più che incasellarlo in una definizione, dovremmo riconoscergli il merito di averne creato uno tutto suo. E non è forse questo che fanno i grandi autori?

L’autore
Vasco Calabrese
Studente di Beni Culturali di giorno e intellettuale maledetto di notte. Mi piace andare al cinema, leggere, andare ai musei e le solite cose. Nel tempo libero gioco (male) a scacchi ed esprimo le mie opinioni spesso non richieste. Cerco di approfondire quello che guardo e che leggo al massimo delle mie possibilità, ma probabilmente se siete in disaccordo con me avete ragione voi. Qui trovate l’ultimo articolo che ho scritto.