«Pisa ha inoltre un gioiello dello stile archiacuto nella chiesuola della Madonna della Spina. Preziosità architettonica da conservarsi sotto una campana di vetro» – Marchese P. Selvatico, 1890 1
Sul Lungarno pisano, a pochi metri dal Ponte Solferino, domina il fiume un tempietto bianco, capolavoro dell’architettura gotica toscana. È impossibile non notarlo: da entrambe le sponde dell’Arno, le sue candide guglie così ricche di sculture e decorazioni dominano l’orizzonte. Si tratta di Santa Maria della Spina, un vero e proprio gioiello del XIII secolo, che con il suo splendore ha da sempre incantato i visitatori e gli studenti che si recavano a Pisa per il Grand tour. Vediamo allora perché una struttura di così piccole dimensioni costituisca un’opera tanto monumentale e iconica per la storia.
La storia della Spina
La chiesa di Santa Maria della Spina non sempre ha avuto questo nome: a lungo si è chiamata Santa Maria del Ponte o del Ponte Nuovo – crollato nel XV secolo, collegava via Santa Maria a via Sant’Antonio – e ha assunto il suo titolo attuale solo nel 1333, quando vi fu portata la reliquia di una delle spine della corona di Cristo, ora esposta nella chiesa di Santa Chiara.
Si tratta di una gemma preziosa dell’arte pisana, una delle poche testimonianze di “gotico fiorito” o internazionale che raramente si trovano in Toscana ed in Italia. La sua costruzione venne iniziata nel 1230 dalla famiglia Gualandi, e fu poi ampliata e conclusa solo nel 1376, probabilmente sotto la direzione di Lupo di Francesco, che nel frattempo era caput magister dei cantieri dell’Opera del Duomo. Nei decenni successivi la chiesetta fu poi completata all’esterno dalle edicole, dalle guglie e dai pinnacoli, animati e sormontati da sculture riferibili sia a seguaci di Giovanni Pisano (com’erano lo stesso Lupo di Francesco e i suoi collaboratori), sia ad Andrea e a Nino Pisano negli anni Quaranta del Trecento.
Poi, con la fine della Repubblica Pisana e l’avvento della dominazione fiorentina dei Medici, la chiesa divenne oratorio della corte, dove i granduchi si recavano a pregare, in particolare prima delle battute di caccia nella tenuta di San Rossore.
La luce: protagonista assoluta
La luce che si riflette sulla superficie dell’Arno viene assorbita dal nobile materiale, e diventa così la protagonista di questa architettura, fino ad apparire quasi di cristallo. Anche all’interno la luce tremolante penetra, specialmente al tramonto, dallo specchio d’acqua alle finestre circolari, rimbalzando sulle carni delle sculture, che si fanno palpitanti.
Rosoni e rosette decoratissimi giocano insieme a rendere questa facciata quasi un’opera di oreficeria. È possibile infatti scorgere proprio in questo lavoro di fine cesello gli stretti rapporti dell’arte pisana con le arti minori e con la cultura e la tradizione orientali. Anche le sue ridotte dimensioni contribuiscono alla preziosità dell’edificio – per intenderci, il Duomo di Pisa ha una superficie di circa quindici volte quella della Spina. L’abate di Nicosia Alessandro Da Morrona scrive:
«Poiché era quel tempo, in cui regnava il gusto Tedesco misto coll’Arabesco, qui far si volle uno sfoggio di tal genere di architetture, conciosiachè vedesi da tre lati accomodata la fabbrica con un immenso lavoro di intaglio, di guglie, tabernacoli, di busti di statue, il tutto di finissimo marmo bianco di Carrara».
Un’altra testimonianza della splendida fattura architettonica della Spina è quella di Pandolfo Titi (1751) che scrive che secondo la tradizione la piccola chiesa fu fondata da un cieco che «limosinando al pié di un Ponte, […] avendo accumulato molto denaro, fece fare questa chiesa, fabbricata sul gusto gotico, ma con un lavoro così fino, e fatto con tanta diligenza ne i marmi, che la foderano, e l’abbelliscono che forse alli tempi nostri si durerebbe fatica a farla simile».2
Le opere che ospita la chiesa
All’interno, l’oratorio anche se piccolo ospita quattro meravigliose fatture della scultura Pisana. Appena entrati, lo sguardo è catturato dalla Madonna della Rosa, una Vergine stante che tiene Gesù Bambino in braccio, così chiamata perché in origine la madre porgeva al figlio una rosellina, andata perduta. A destra e a sinistra poi, su due mensole rialzate, si trovano un San Pietro e un San Giovanni Evangelista. Tre statue sono opera di Andrea da Pontedera, uno dei grandi protagonisti della scultura pisana del Trecento. Assieme a lui lavorò anche il figlio, Nino Pisano, che verosimilmente si limitò ad eseguire un disegno preciso fornitogli dal padre.




In controfacciata troviamo poi la Madonna del Latte – una copia, l’originale è al Museo di San Matteo – ancora frutto della collaborazione dei due scultori pisani.
E quelle che ospitava un tempo
Sebbene oggi le uniche opere qui conservate siano queste quattro, dobbiamo immaginarci che in epoca moderna la Spina fosse gremita di opere di altissima qualità. Ad esempio, altre opere che si potevano osservare erano la Madonna dei Cacciatori di Nino Pisano, che poi è stata trasferita sotto i portici di Borgo Stretto, e un dipinto del Sodoma, una Sacra Conversazione oggi al Museo di San Matteo. Il piccolo oratorio doveva essere dunque pieno di volti di Madonne e di Santi, che con la morbidezza dei loro lineamenti ancora di più infondevano il piccolo spazio sacro di dolcezza e dell’amore divino.
I problemi conservativi: le esondazioni dell’Arno
La posizione della Spina ha da sempre costituito un grande problema per la sua conservazione: a causa delle frequenti piene dell’Arno, la sua situazione è sempre stata precaria. Già molti interventi sono documentati dal Quattrocento, ma tutti i tentativi di restauro fino al Settecento furono inconclusivi.
La ricostruzione del 1871
L’operazione più ambiziosa (e rischiosa) fu nel 1871, quando la struttura venne completamente smontata, pezzo per pezzo, e ricostruita. Ce lo raccontano ancora le parole del marchese Selvatico:
«Il tempietto, che si vede tuttora nel Lungarno di Pisa, non è precisamente al posto antico in tutto e per tutto; è stato rialzalo di un buon tratto, levandone le parti pietra a pietra, ogni pezzo segnato e numerato a riscontro di disegni e fotografie fatte prima di scomporlo che servirono poi a ripresentarlo ai posteri bello e parato a vivere ancora più secoli che non ne abbia vissuti; e prima e poi ammirato tra le più belle cose del periodo dell’arte a sesto acuto e dell’arte italiana.»
L’operazione servì a spostarla di qualche metro verso est, e soprattutto ad alzarla di un metro. Il progetto fu guidato dall’architetto Vincenzo Micheli, e non mancarono complicazioni e polemiche. Inoltre la particolare solidità delle malte rese gravemente dannosa l’operazione, e nello smontaggio ci furono estese distruzioni di materiali marmorei, oltre a sostanziali modifiche alla primitiva struttura.
Il giudizio di Ruskin
Celeberrima la sentenza dell’inglese Jhon Ruskin, uno dei fondatori dell’Arts and Crafts Movement e precursore dell’Art Nouveau. Ruskin era solito passare i pomeriggi nel chiostro del Camposanto, per poi concludere la giornata «sul tetto di Santa Maria della Spina, seduto in quella luce che permeava il tiepido marmo delle sue guglie, finché quella lucentezza ininterrotta non scendeva sotto gli archi di Ponte a Mare».3 Ma tornato a Pisa dopo decenni, assistette proprio allo smembramento di quel luogo da lui tanto amato. Il suo giudizio fu durissimo:
«Mentre disegnavo la croce intagliata nel pennacchio dell’arco occidentale di Santa Maria della Spina, nel 1872, questo venne fatto a pezzi da uno scalpellino davanti ai miei occhi, e i pezzi vennero portati via, tanto che si poteva ricavarci un modello e sostituirli a quelli originali. […] Che cosa intendete fare rovinando questo magnifico posto? Sapete ciò che state facendo? Non siete consapevoli che gli Austriaci non hanno mai fatto così tanto danni all’Italia quanto voi altri state facendo ora con i vostri scalpelli e mazzuoli?».4
Un’aria… acida
Oltre alla precarietà della posizione, per via delle esondazioni dell’Arno, un altro problema è stata proprio l’atmosfera pisana. L’aria di Pisa infatti è molto acida per via della sua vicinanza al mare, oltre che inquinata per gli scarti delle industrie e lo smog delle macchine. Ecco perché il processo di solfatazione dei marmi (il Carbonato di Calcio diviene Solfato di Calcio, ossia gesso) sia rapidissimo, rendendo molte opere vicine ad un irreversibile collasso delle superfici. Inoltre, ciò provoca anche l’ossidazione degli innumerevoli perni metallici che sostengono e fissano ai supporti le parti scultoree. È stato infatti effettuato un importante restauro (1992-1996) da parte del Ministero Beni Culturali Ambientali, che si è occupato della pulitura e conservazione dei materiali.
La Spina oggi: tra medioevo e arte vivente
Oggi la Spina offre il suo spazio per brevi mostre di artisti contemporanei, mettendo a disposizione di scultori e pittori emergenti la sua atmosfera così suggestiva. Ultimamente hanno esposto alla Spina artisti come Franco Mareggiato, con la sua personale “Il respiro della forma” (2022), Brice Esso con “Les enfants de l’homme” (2022), Gianni Lucchesi con “Signum” (2023), Daniela Maccheroni e Rachele Carol Odello con “La Mente e l’Anima” (2024) e Mauro Capitani con “Opera Sacra” (2024) . Ecco che il tempietto gotico riacquista così una nuova modernità e freschezza, e il suo marmo bianco fa da sfondo alla creatività di nuovi talenti ed espressioni artistiche in evoluzione.
- Strafforello Gustavo, “La Patria – Geografia dell’Italia – Massa e Carrara, Lucca, Pisa e Livorno” 1890 ↩︎
- Guida per il passeggiere dilettante di pittura scultura ed architettura nella città di Pisa, p.219, Lucca 1751 ↩︎
- Jhon Ruskin, Praeterita, in Works, 35, p. 358. Qui il testo originale. ↩︎
- Jhon Ruskin, Works, 34, p. 515 ↩︎
- Collection of the Guild of St George, Museums Sheffield ↩︎

Autrice: Giulia Badame
Studentessa di Storia dell’arte, classe 2002, aspirante medievista; amo disegnare e studio danza di carattere russo. Scrivo per la rubrica Il Lume: vai a leggere il mio ultimo articolo!