Caffè Letterario- Leopardi era davvero pessimista?

Giacomo Leopardi, da Wikipedia

Ciao a tutt*, amici del caffè letterario! Per iniziare questo articolo oggi vorrei farvi una domanda: a quanti di voi è stato insegnato a scuola che Leopardi fosse un pessimista? Immagino tutt*, ma vi lascio del tempo per rifletterci. Dopo una breve digressione sulla sua vita, che credo sia fondamentale per comprendere meglio il personaggio, cercherò di spiegarvi come mai secondo me Leopardi non si possa definire un pessimista, anzi!

La vita

Recanati, da wikipedia
Recanati, da wikipedia

Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno del 1798. La sua famiglia è tra le più ricche della nobiltà terriera marchigiana, ma si trova in cattive condizioni patrimoniali, tanto da essere costretta ad osservare una rigida strategia di risparmio economico. Il padre Monaldo è un uomo assai colto e possiede una grande biblioteca, anche se di cultura accademica e attardata.

A istruire Giacomo sono perlopiù precettori ecclesiastici, ma già all’età di 10 anni non ha più bisogno di essere istruito e si chiude nella biblioteca del padre per “sette anni di studio matto e disperatissimo”, dove ha modo di imparare oltre al latino anche il greco e l’ebraico, condurre incredibili lavori filologici per la sua età e comporre, oltre che vaste opere, anche numerosi componimenti poetici. Presto si avvicina ai grandi poeti della storia, Dante, Virgilio e Omero, e alla cultura moderna, da Rousseau ad Alfieri.

Momento molto importante per la sua formazione culturale è l’amicizia con Pietro Giordani, grande intellettuale di orientamento classicistico, ma di idee laiche e democratiche.

conte monaldo leopardi, da wikipedia
Conte Monaldo Leopardi, da wikipedia

Presto la vita nella piccola Recanati diviene insostenibile e Leopardi tenta la fuga nel 1819, ma viene scoperto dal padre e costretto a tornare a casa. Questo fatto lo addolora moltissimo, ma nel 1822 si presenta per lui l’occasione di uscire dall’opprimente paese Natale quando, ospite dello zio Carlo Antici, ha modo di recarsi a Roma. Rimane però insoddisfatto degli ambienti letterari incontrati e rientra a Recanati, dove si dedica alla composizione delle Operette Morali. Finalmente nel 1825 gli si presenta la possibilità di mantenersi autonomamente con i suoi scritti tramite l’assegno offertogli dall’editore milanese Stella per una serie di collaborazioni. Soggiorna a Milano e Bologna, poi nel 1827 si reca a Firenze,. Tra il 1827 e il 1828 è a Pisa, dove una relativa tregua dai suoi mali fisici e la dolcezza del clima favoriscono un “risorgimento” delle sue facoltà immaginative. Qui compone “A Silvia” e ha inizio la serie dei grandi idilli.

Nel 1828 è costretto a rientrare a Recanati, sospeso l’assegno dell’editore e peggiorate le sue condizioni di salute.

Nel 1830 accetta una cospicua offerta dei suoi amici fiorentini e torna a vivere a Firenze, dove ha la possibilità di immergersi a pieno nell’ambiente culturale e stringere legami più intensi. Importante sarà l’amicizia con il napoletano Antonio Ranieri, con il quale si trasferirà a Napoli nel 1833, dove rimarrà fino alla morte, avvenuta nel 1837.

Pessimismo o realismo?

Dopo aver studiato la vita di Leopardi a scuola, ricordo di aver pensato che per una persona così profonda e sensibile fosse inevitabile la sofferenza. Immaginavo che la sua intelligenza lo avesse reso in grado di percepire il mondo con una intensità dolorosa, seppur affascinante, e le sue condizioni fisiche gli impedissero di vivere la vita con totale partecipazione. In più l’ambiente recanatese doveva essere davvero pesante per lui, che non poteva esercitare la sua sensibilità al di fuori dell’oppressivo tetto familiare.

Ebbi modo di riflettere a lungo, leggendo i suoi testi, e nella sua disillusione mi sembrava di intravedere la speranza e l’amore per una vita che gli era concesso di guardare solo da lontano. Nella poetica di Leopardi una caratteristica fondamentale è l’illusione che rende sopportabile la vita: al di sotto di essa rimane soltanto “l’arido vero”; e se il pessimismo leopardiano non fosse altro che realismo? Tutti siamo accompagnati dal dolore della nostra coscienza, è ciò che ci differenzia dagli altri animali e ci rende l’esistenza più difficile, perché trovarne un senso risulta impossibile. Beh, io credo che Leopardi ci racconti realisticamente il dolore della sua grande coscienza di sé, un dolore umano, vero, che ci accomuna tutte e tutti.

Nei prossimi paragrafi, mi piacerebbe riportare qualche testo e chiarimento che possa aiutare a rendere più limpido ciò che penso.

Dalle Lettere, lettera a Pietro Giordani del 6 marzo 1820

Mio carissimo,

sto anch’io sospirando caldamente la bella primavera come l’unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell’animo mio; e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo pure, un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo.

Di questa lettera, della quale ho riportato solamente un estratto, mi ha colpito particolarmente l’immagine del poeta che guarda alla luna, e si lascia trasportare e commuovere dall’aria tiepida, dai cani che abbiano, fino a quando non gli pare di sentire “un moto nel cuore”: Quante volte vi è capitato di emozionarvi di fronte a qualcosa che ci fa sentire come se ci fosse qualcosa di più grande nell’aria, qualcosa di cui tutti facciamo parte? Consequenzialmente, Leopardi inizia a “gridare come un forsennato”, chiedendo pietà alla natura.

Il nostro poeta è come assorbito da una esperienza terrena che diviene metafisica, e questo lo mette in contatto con l’infelicità della sua condizione di persona che ha ormai conosciuto l’arido vero della realtà delle cose.

Più avanti, la lettera prosegue così:

Perché questa è la miserabile condizione dell’uomo, e il barbaro insegnamento della ragione, che i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose, sia sempre e solamente giusto e vero. E se bene regolando tutta quanta la nostra vita secondo il sentimento di questa nullità, finirebbe il mondo e giustamente saremmo chiamati pazzi, a ogni modo è formalmente certo che questa sarebbe una pazzia ragionevole per ogni verso, anzi che a petto suo tutte le saviezze sarebbero pazzie, giacché tutto a questo mondo si fa per la semplice e continua dimenticanza di quella verità universale, che tutto è nulla.

Ebbene, qua credo che stia il nodo della questione. Le illusioni servono al genere umano per distoglierle dal vero, che forse è la consapevolezza della nostra effimerità. Ci aiutano a sentirci onnipotenti, quando, come Leopardi, respiriamo l’aria dolce della primavera e ci sentiamo parte di qualcosa di grandissimo: le illusioni ci nutrono e rendono tollerabile il dolore che è caratteristica dell’esistenza umana e ci accompagna. Quando l’illusione svanisce, però, gestire il vuoto che lascia diventa davvero difficile..

Quante volte, in un momento di difficoltà, vi siete rifugiati nell’immaginazione, per rendere più tollerabile qualcosa di molto doloroso? Certo che se regolassimo la nostra vita come dice Leopardi, solo tenendo conto del dolore dato dall’assenza di senso della realtà, impazziremmo; e allora, le illusioni ci aiutano a rendere più dolce la vita, è una esperienza umana, collettiva, che in qualche modo ci accomuna.

Cos’è il pessimismo?

Dal Dizionario italiano De Mauro:

1. CO disposizione a considerare la vita, la realtà o gli eventi futuri esclusivamente o prevalentemente in una prospettiva negativa: essere oppresso da un profondo, cupo, inguaribile pessimismo, guardare al futuro con pessimismo
2. TS filos. dottrina secondo cui l’esistenza umana è dominata dal dolore, dall’infelicità e dalla malvagità e la realtà è soggetta a una forza cieca e irrazionale | estens., posizione che enfatizza il prevalere del male sul bene

Se il significato di pessimismo è questo, allora risulta molto riduttivo incasellare Leopardi in questa parola.

Forse la sua poesia ci racconta la complessità dell’esistenza umana, nelle sue speranze e i suoi dolori; nella filosofia di Leopardi non manca la speranza e non mancano il dolore e la morte, tutto si alterna e si contrappone, tutto ci parla di quanto sia difficile e meraviglioso essere umani. Ad esempio un paesaggio lunare, come nel caso della Lettera a Pietro Giordani che abbiamo visto, ci meraviglia e ci strazia allo stesso tempo. Per spiegarmi meglio, riporto qua un passo di una famosa operetta morale dove si affronta il concetto del sonno e della morte, delle illusioni e della speranza.

La morte e il sonno nel “Cantico del Gallo Silvestre”

Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella. Perocché la vita non si potrebbe conservare se ella non fosse interrotta frequentemente. Troppo lungo difetto di questo sonno breve e caduco, è male per sé mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita che, a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte.

La morte viene descritta come annullamento dell’esistenza umana: dove c’è vita c’è anche dolore, dove c’è morte c’è riposo eterno, ma non c’è esistenza.

Operette Morali, da fondazione mondadori
Operette Morali, edizione del 1978, da Fondazione Mondadori

Non si potrebbe mantenere la vita se non fosse accompagnata da piccole interruzioni di essa, perché sarebbe insostenibile gestirla: ogni volta che dormiamo sperimentiamo un assaggio di morte, perché le due cose, vita e morte, sono profondamente legate e abbiamo bisogno di poter ristorare per riprendere il filo della vita e ricominciare.

A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne producono e formano di presente: perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali.

Quando dormiamo sogniamo, e il sogno ci aiuta a nutrire la vita di nuove speranze: al risveglio ci sentiamo più sereni e questo ci da la forza di iniziare la giornata.

Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empiranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi3.

Arriverà la morte anche dell’universo e della stessa natura, che porterà la quiete: questo “arcano mirabile” che è l’esistenza umana smetterà di esistere. Rimarrà solo il silenzio, nient’altro.

Ancora una volta, credo che questo testo non invochi la morte come unica speranza di salvezza: la morte non salva, silenzia; la morte ci aiuta a dare un senso alla vita. Come in Freud, pulsione di vita e pulsione di morte vanno insieme: come possiamo appellarci al pessimismo?

Io credo che anche questa operetta morale, seppur dai toni cupi, ci racconti la contraddizione e la complessità dell’universo, dell’esperienza umana: come egli stesso dice la “esistenza universale” è un “arcano mirabile e spaventoso”, è insieme meraviglioso e terrificante.

La speranza: una ginestra che cresce sulle pendici del Vesuvio

Composta nel 1836 presso Torre del Greco, in una villa alle falde del Vesuvio, La Ginestra fu pubblicata da Antonio Ranieri nell’edizione postuma dei Canti del 1845. Il fiore ha un significato simbolico molto impattante: cresce fiero dove la lava porta solo distruzione e morte, si erge quasi come simbolo di resistenza. E infatti è proprio in questa poesia che Leopardi finalmente propone una soluzione che non si basa su di una forzatura ottimista, ma proprio sulla consapevolezza della tragica condizione umana. Vediamolo meglio:

Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune

La nobile natura umana è quella che con coraggio riconosce la condizione di infelicità che ci è data: non cerca di combatterla, non prova a negarla, ma l’accetta con fierezza e coraggio. Non aggiunge al suo dolore anche quello dato dallo scontro con altri fratelli, ma attribuisce la colpa alla natura e ha il coraggio di allearsi ed unirsi agli altri uomini, creando fratellanza là dove la natura dissemina sofferenza.

Pianta della ginestra, da wikipedia
Pianta della ginestra, da wikipedia

C’è dunque una soluzione per la nostra condizione e sono le relazioni umane, i legami che riusciamo a stringere tra di noi: il dolore condiviso e collettivo è più sopportabile del dolore individuale.

Solo ammettendo la nostra situazione e stringendoci con amore fraterno tra di noi saremo in grado di rendere meno dolorosa la nostra vita.

Quella che muove Leopardi è una lucida consapevolezza che lo ha accompagnato per tutto il corso della sua vita, non è pessimismo; infatti, fondamentale in questo testo è la presa di coscienza della nostra condizione umana per saperla attraversare e sostenere.

Ed è meraviglioso, perché in una vita che non ha senso forse il significato è questo, la fratellanza, per saper contrastare la mancanza di senso che ci logora.

Tra filosofia e meraviglia, la poetica leopardiana ci racconta con ardore tutte le sfaccettature del reale, ci affratella e ci accomuna, proprio come l’autore desidera in “La Ginestra”.

Forse leggendolo si compie la sua volontà, perché ci scopriamo più simili tra di noi di quanto pensassimo, nella fragilità, nella paura e nel dolore: questa è la sua meraviglia, questa è la meraviglia umana.

L’autrice

Ciao a tutt3! Sono Emma, studio Lettere Moderne e amo spulciare tra libri e parole per scoprire sempre qualcosa di nuovo. Leggo di tutto, soprattutto in compagnia dei miei gatti, e quando possibile scrivo o gironzolo in libreria 🙂

Se sei interessat* a leggere il mio articolo precedente (ti ringrazio!) clicca qui! 🙂

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