Souperstition – Motown, the sound of young America

Welcome to Hitsville USA!” così ci avrebbe dato il benvenuto probabilmente Berry Gordy, fondatore dell’etichetta discografica Motown, che avrebbe scalato le classifiche americane degli anni ’60 permettendo, almeno in parte, alla rivalsa della comunità afroamericana, con un successo tale da competere pure con i Beatles.

L'edificio della casa discografica Motown
@Dig Downtown Detroit via Flickr

In questa storia si deve considerare un tassello fondamentale: la Motown è stata fondata a Detroit, al tempo uno dei più grandi centri industriali del Nord degli USA. Storicamente questo luogo è stato la destinazione delle grandi migrazioni che hanno interessato le popolazioni afroamericane in fuga dal Sud e dalle piantagioni, che qui riuscivano a trovare lavoro (non senza ostacoli) grazie alle industrie automobilistiche Ford.

La Detroit di quegli anni, the motor city, viene raccontata come una città pervasa dalla musica, a partire dalle scuole per arrivare fino alle sale da concerto, ma soprattutto agli angoli delle strade: i quartieri dove viveva (o era costretta a vivere) la comunità afroamericana erano pieni di ragazzini che cantavano e suonavano, incentivati anche dai numerosi programmi musicali nelle scuole che hanno permesso a tantissimi di esprimere il loro talento.

Il Blues, il Gospel, e la musica in senso lato era ciò che permetteva alla comunità afroamericana di dare spazio a un’identità che non potevano esprimere a pieno: sebbene nel Sud degli USA la ferocia razzista dei suprematisti bianchi fosse notoriamente più violenta, non possiamo certo dire che a Detroit non esistesse la segregazione razziale.

La storia della Motown e il suono che l’ha caratterizzata sono il risultato del cambiamento sociale che la comunità afroamericana a Detroit e il Movimento dei Diritti Civili di Martin L. King negli Stati Uniti hanno portato avanti, divenendo il simbolo del “racial progress e la dimostrazione che l’integrazione fosse possibile.

L'azienda Ford a Detroit

Prima ancora di parlare degli effetti però, dobbiamo partire dalle cause. Colui che ebbe l’idea di fondare la Motown fu Berry Gordy alla fine negli anni ’50, dopo che scrisse due canzoni per un cantante afroamericano che fecero grande successo. Spinto dai suoi risultati decise di fondare una casa discografica tutta sua, ponendosi fin da subito l’obiettivo di produrre grandi successi da grandi talenti (e perché no, fare anche tanti soldi).

L’ambiente urbano in cui si trova l’edificio della Motown, un quartiere afroamericano, permette a Gordy di trovare facilmente i talenti di cui ha bisogno: alcuni raggiungevano lo studio da soli, spinti dalla speranza di trovare successo, altri li trovava lui stesso nei locali o nei talent delle scuole della città. Gordy voleva dare loro la possibilità di avere successo, non cosa facile da afroamericani negli USA degli anni ‘50: “Volevo un luogo in cui un ragazzino dalla strada potesse entrare dalla porta da sconosciuto e uscirne come un artista” ha affermato lui stesso.

Aveva creato un locus amoenus in cui tanti grandi artisti (adesso più o meno conosciuti) ebbero modo di creare singoli di estremo successo prima, e di sperimentare poi: parliamo di personaggi del calibro di “Little” Stevie Wonder (che aveva 11 anni quando cominciò), Marvin Gaye, The Supremes capitanate da Diana Ross (che divenne moglie dello stesso Gordy), per citare i più famosi che insieme a tantissimi altri contribuirono alla creazione di un vero e proprio sound che permise alla musica della comunità afroamericana di uscire dai confini dei quartieri razzialmente segregati.

Il successo della Motown si deve anche ad un’intuizione di Gordy, ovvero l’applicazione della catena di montaggio fordista che veniva impiegata nelle industrie automobilistiche della città, dove lui stesso aveva lavorato per due anni. Proprio come un’industria, il processo produttivo e creativo era strutturato in fasi, attraverso cui i brani venivano scritti, registrati, prodotti e soltanto alla fine votati per la pubblicazione nei severi meeting del Quality Control, dove si riunivano produttori e scrittori per discutere delle registrazioni; e passava solo chi prendeva il massimo dei voti.

Insomma una vera propria catena di montaggio che permetteva a Gordy di andare sul sicuro ogni volta. La prima hit arriva nel 1959: “Money (That’s What I Want)” di Barrett Strong, scritta dallo stesso Gordy insieme a Janie Bradford; ma il primo singolo a scalare la classifica arrivando al primo posto sarà “Please Mr. Postman”delle The Marvelettes nel 1961. E da questo momento in poi gran parte dei singoli della Motown finirono in cima alle classifiche, e non solo quelle dei Race Records (ovvero quelle dedicate alla musica di artisti afroamericani): sempre più bianchi, soprattutto giovani, ascoltavano questa musica contribuendo in parte ad abbattere le barriere razziali. E questo sarà più evidente quando gli artisti della Motown cominceranno a fare i primi tour negli Stati Uniti: ai concerti nel Sud, nonostante le corde in mezzo alla sala, bianchi e neri ballavano tutti assieme.

Cominciò a crearsi un sound che caratterizzava i brani prodotti, un modo di scrivere e di suonare. Le influenze arrivano dai generi musicali come il Gospel, l’R&B, il Blues e il Jazz, ma anche dalla musica classica: tutte esperienze e contaminazioni che caratterizzavano la vita musicale della comunità da cui i musicisti e i parolieri della Motown arrivavano (“the Detroit way of approaching music”, Jhonny Griffith).

Parliamo di figure di una qualità artistica non indifferente, primo tra tutti WilliamSmokey” Robinson, autore e prima voce nel gruppo Smokey Robinson & the Miracles, considerato da Bob Dylan come uno dei più grandi poeti della storia; oltre a lui il trio di autori che ebbe in assoluto il maggior successo fu Holland-Dozier-Holland, riuscendo persino a raggiungere e poi superare il connubio Lennon-McCartney in termini di successi in classifica. È grazie ai loro successi se il pop statunitense riuscì a resistere la British Invasion di quegli anni. Chi metteva in musica i loro testi erano i Funk Brothers, fiore all’occhiello della produzione: musicisti che creavano grooves da parti di canzoni poi che venivano assemblate insieme, in un processo dinamico definito dal bassista, James Jamerson, “a spiritual thing”.

Nonostante l’organizzazione fordista permettesse di controllare ogni momento della produzione, agli artisti era concesso di esprimersi secondo il loro stile personale, e autori, produttori e  musicisti dovevano tenerne di conto. “My Girl” dei The Temptations (1965), “You can’t hurry Love” delle The Supremes (1966), “Dancing in the Street” delle Martha and the Vandellas (1964), “For once in my Life” di “Little” Stevie Wonder (1968) sono tutti singoli che certamente hanno dei punti in comune, ma sono espressione di artisti diversi, ognuno con le proprie caratteristiche personali. Tanto faceva anche la produzione, che spesso adattava i singoli a seconda delle esigenze dei cantanti. Ne è un esempio “I Heard Trough the Grapevine“, scritta da Norman Whitfield (altro produttore e autore) e Barret Strong nel 1966, che fu cantata e suonata in modi anche molto diversi: una prima versione è quella degli Smokey Robinson & The Miracles, che inizialmente non uscì perché bloccata dal veto di Berry Gordy al Quality Control; Gladys Knight & the Pips ne fecero poi una loro versione nel 1967, riarrangiata per far fronte al funk di Aretha Franklin nella sua versione di Respect; infine, Marvin Gaye l’anno dopo iniziò con le registrazioni e il singolo, inizialmente bloccato da Gordy, divenne la versione con più successo in assoluto, considerata tutt’ora un classico del soul.

Man mano che si andava verso gli anni ’70 e il contesto storico cambiava, gli artisti cominciarono sempre di più a voler sperimentare nuove modalità di espressione musicale e tematica. Stevie Wonder comincia a produrre sé stesso una volta entrato in possesso delle sue royalties, autodeterminandosi a livello mondiale con album sperimentali, distaccandosi di fatto dalle decisioni della Motown. Alla sua sperimentazione musicale si affianca quella tematica di Marvin Gaye che, stanco dei testi edulcorati tipici del pop che ha dato successo alla Motown, produrrà What’s Going On (1971), aprendo a temi di interesse sociale ed ecologico ignorati fino a quel momento e creando un album grandioso, splendido, di una modernità disperata (e non potrebbe essere più attuale di adesso).

La storia della Motown è immensa e grandiosa e  per concludere vorrei citare Neil Young (egli stesso sotto contratto per un breve periodo) che in modo molto diretto afferma che: “L’eredità della Motown sta nella cultura, è parte della cultura degli Stati Uniti, non solo della comunità afroamericana: è di tutti”. Potremmo dire che il progetto di Gordy sia la realizzazione del sogno americano, e lo è; ma la storia di Hitsville!, USA è molto di più, perché ha contribuito ad abbattere i muri invisibili di una nazione dimostrando che ciò che unisce varrà sempre di più di ciò che ci vuole divisi.


Fonti:

1: Smith, Suzanne Eileen. ‘Dancing in the Street’: Motown and the Cultural Politics of Detroit, 1963-1973. Vol. 57, 1996.

2: Fitzgerald, Jon. ‘Motown crossover hits 1963–1966 and the creative process’, Popular Music, 14.1: 1-11, 1995.

3: McCarthy, M. ‘The Young Musicians of Motown: A Success Story of Urban Music Education‘, Music Educators Journal, 99(3), 35-42, 2013.

4: Wright, Brian F. ‘Reconstructing the History of Motown Session Musicians: The Carol Kaye/James Jamerson Controversy’, Journal of the Society for American Music, Volume 13, Number 1, pp. 78–109, 2019

5: Quispel, Chris. ‘Detroit, City of Cars, City of Music’, Built Environment (1978-) 31, no. 3: 226–36, 2005.

6: Sites, W. ‘Is This Black Music? Sounding Out Race and the City’, Journal of Urban History, 38(2), 385-395, 2012.

7: Benjamin Turner, Gabe Turner, ‘Hitsville: la storia della Motown’, 2020 (in lingua originale: https://www.youtube.com/watch?v=xjwkgD0p5lE).

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