Il Giorno della Memoria: per non dimenticare

Il 27 Gennaio è stato dichiarato il “Giorno internazionale della Memoria”, giornata in cui si ricordano le vittime dell’Olocausto e, di conseguenza, lo sterminio operato dai nazi-fascisti* nei confronti delle popolazioni ebraiche, sinte e rom, e degli individui disabili, omossessuali e i cosiddetti “asociali”, ovvero chiunque fosse considerato inadatto a vivere nella società nazista.

Detenuti ad Auschwitz all’arrivo delle forze sovietiche, 1945 (immagine tratta dall’articolo su Rai Cultura)

Si tende a considerare come Olocausto solamente la Shoah, termine usato per indicare il genocidio degli ebrei attraverso il sistema dei campi di concentramento; nonostante le vittime ebree siano state circa 6.000.000 secondo le ricostruzioni, e cioè poco meno della metà delle vittime complessive dell’Olocausto, è giusto ricordare che non sono state le uniche a vivere l’inferno dei campi e della sanguinosa mano nazi-fascista.

* Il termine è qui utilizzato, impropriamente, per indicare i regimi nazista e fascista anche prima della subordinazione del fascismo al nazismo (avvenuta dopo il settembre 1943, quando il termine nazifascismo fu coniato)



TW: questo articolo contiene immagini e descrizioni esplicite di quello che accadeva all’interno dei campi di concentramento, di lavoro e di sterminio



Un po’ di storia

Per avere una visione generale della storia e della politica dei regimi italiani e tedeschi in quegli anni, rivolgiamoci a Wikipedia:

“Il fascismo diede vita a un tipo di Stato definito a seconda degli storici o totalitario o totalitarismo imperfetto[5] che caratterizzò l’Italia dal 1925 fino al 1945. L’Italia fascista mantenne l’istituto monarchico con un rispetto formale delle prerogative della casa reale ed un’esautorazione di fatto della stessa e del Parlamento. Nella realtà il potere venne infatti detenuto in massima parte da Benito Mussolini e su suo mandato da un ristretto numero di gerarchi. Il Duce, come veniva chiamato il fondatore del fascismo, si fece promotore di una politica estera imperialista che portò l’Italia alla conquista dell’Etiopia e dell’Albania e successivamente alla seconda guerra mondiale.”


“Il nazionalsocialismo sorse nella prima metà degli anni venti e raggiunse il potere in Germania grazie alla figura di Adolf Hitler, suo fondatore e capo carismatico, il quale, con il suo Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, governò il popolo tedesco dal 1933 al 1945 fino alla conclusione della seconda guerra mondiale in Europa. Il totalitarismo nazionalsocialista si ispirò al fascismo per poi esercitare a sua volta (a partire dal 1938 circa) una notevole influenza sul regime mussoliniano, soprattutto in riferimento a temi afferenti alle legislazioni razziali ed all’antisemitismo. Sia in Germania sia nelle zone conquistate vennero introdotte politiche basate sul razzismo biologico nei confronti di popoli considerati inferiori e/o inassimilabili (come ebrei e zingari) e di fasce sociali ben definite considerate dal nazismo dannose (come omosessuali[8] e affetti da malattie mentali).”


“Fino alla vigilia della seconda guerra mondiale (1937–1938 circa), almeno in patria, il fascismo italiano aveva dato vita ad un tipo di regime più tollerante di quello nazista in Germania sia nei confronti delle minoranze etniche e religiose sia verso i propri avversari politici, generalmente sottoposti a sorveglianza o inviati al confino e solo nei casi più gravi incarcerati[9] o fatti assassinare[10]. Nel Corno d’Africa (futura Africa Orientale Italiana) e precedentemente in Libia vennero invece commessi numerosi crimini di guerra con uso diffuso di aggressivi chimici sui civili a partire dal 1928, nonché istituzione di campi di concentramento in cui morirono molti libici a causa delle tremende condizioni di vita[11][12]. A partire dalla seconda metà degli anni trenta ed ancora più a partire dagli inizi del decennio successivo[13] – con l’entrata dell’Italia in guerra (1940) e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana (1943) – le atrocità commesse nei territori occupati, in particolare nei Balcani[14], un antisemitismo particolarmente virulento[15], la partecipazione attiva insieme all’alleato germanico ad azioni di efferata crudeltà[16] e la stessa conclamata amicizia tra Mussolini e Hitler finirono con l’accomunare sempre più le due dittature anche nell’immaginario collettivo, giustificando in tal modo la nascita e la diffusione del termine stesso di nazifascismo[17].”

Da Wikipedia, sotto la voce “Nazifascismo”

In questo clima di intolleranza politica e razziale, la vita per chi era considerato indegno di partecipare alla società si faceva sempre più difficile; in particolare le popolazioni che storicamente in Europa erano già state ampiamente perseguitate nel corso dei secoli (ebrei, sinti, rom, altre popolazioni nomadi), cominciarono a trovarsi marginalizzate, escluse dai luoghi della società e della politica finchè non rimase più alcuno spazio da occupare senza commettere un crimine.

Deportati in arrivo al campo di Auschwitz (immagine tratta dall’articolo su Rai Cultura)

Se inizialmente la reclusione era considerata una punizione per individui recidivi, per esponenti dell’opposizione politica o per criminali comuni, la grande macchina del nazi-fascismo cominciava lentamente ad includere in questi ranghi anche civili la cui sola colpa era di appartenere ad un’etnia, ad un gruppo politico, ad un’ideologia o ad una religione diversa da quella del “tipico” esponente della “razza ariana.

Gli individui disabili venivano considerati menomati e, in quanto tali, indegni della partecipazione alla società: con l’inasprimento delle politiche di “conservazione della purezza della razza”, anche queste persone cominciarono ad essere deportate in massa attraverso lo stesso sistema di campi di concentramento e di sterminio, per essere eradicate dalla società. Omosessuali, esponenti religiosi, pacifisti e partigiani finirono spesso per ricevere lo stesso trattamento.

I simboli utilizzati per riconoscere i prigionieri nei campi di concentramento (immagine tratta dal sito Gaynet-roma.org)

“Nel campo di concentramento di Dachau i malati di mente furono regolarmente uccisi con una iniezione fino alla fine della guerra. Ricordo inoltre che verso il 24 aprile del 1945 il dott. Hintermaier portò nel crematorio 18 giovani visibilmente malati di mente o con altri disturbi del genere e li uccise con delle iniezioni.”

Dichiarazione giurata di Emil Mahl, ex kapò del crematorio, tratta dal libro “Il campo di concentramento di Dachau dal 1933 al 1945”, p. 186

Quello che spesso si pensa è che la macchina di sterminio nazi-fascista fosse troppo evidente perchè nessuno in Europa si fosse reso conto di ciò che accadeva nei campi di concentramento; eppure dimentichiamo quanto semplice sia voltare lo sguardo di fronte ad un fatto, anche grave, che non ci riguarda; quanto sia stato semplice, anche allora, pensare che certe cose fossero troppo crude e violente perchè potessero davvero esistere, e che “di certo non succederà a me”, e “di certo c’è una ragione”. Finchè, alla fine della guerra, le immense pile di cadaveri non furono rivelate, e i carnefici (quelli che vennero catturati, s’intende) costretti a fare i conti con le atrocità da loro commesse.

I campi di concentramento

Quelli che noi chiamiamo “campi di concentramento” spesso avevano diverse funzioni in base alla loro ubicazione, al tipo di prigionieri che contenevano e in base all’organizzazione che il governo nazi-fascista aveva stabilito. Il campo di concentramento in sé è un concetto che nasce prima del lager (Konzentrationslager) associato all’Olocausto, ma il termine è stato presto assorbito, nella cultura comune, come sinonimo dei campi di lavoro e sterminio utilizzati dalla macchina nazi-fascista.

Liberazione di Auschwitz, 1945 (immagine tratta dall’articolo su Enasc.it)

“Moltissime cose ci restano da imparare, ma molte le abbiamo già imparate. Già abbiamo una certa idea della topografia del Lager; questo nostro Lager è un quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da due reticolati di filo spinato, il più interno dei quali è percorso da corrente ad alta tensione. è costituito da sessanta baracche di legno, che qui si chiamano Blocks, di cui una decina in costruzione; a queste vanno aggiunti il corpo delle cucine, che è in muratura; una fattoria sperimentale, gestita da un distaccamento di Häftlinge [“prigionieri” in tedesco, n.d.R.] privilegiati; le baracche delle docce e delle latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei od otto Blocks. […]


Prigioniere nelle baracche femminili di Auschwitz (immagine tratta dall’articolo su Rai Cultura)

I comuni Blocks di abitazione sono divisi in due locali; in uno (Tagesraum) vive il capo-baracca con i suoi amici: […] sulle pareti, grandi scritte, proverbi e poesiole inneggianti all’ordine; […] i mestoli per distribuire la zuppa e due nerbi di gomma, quello pieno e quello vuoto, per mantenere la disciplina medesima. L’altro locale è il dormitorio; non vi sono che centoquarantotto cuccette a tre piani, disposte fittamente, come celle di alveare, in modo da utilizzare senza residui tutta la cubatura del vano, fino al tetto, e divise in tre corridoi; qui vivono i comuni Häftlinge, in numero di duecento-duecentocinquanta per baracca, due quindi in buona parte delle cuccette, le quali sono di tavole di legno mobili, provviste di un sottile sacco a paglia e di due coperte ciascuna. […]”

Dal libro “Se questo è un uomo” di Primo Levi, pp. 43-45

Il viaggio del detenuto iniziava in un campo di prigionia semplice, di cui se ne trovavano molti sui territori controllati dai nazisti; ne abbiamo alcuni anche in Italia (la Risiera di San Sabba, campo di detenzione della città di Trieste, è il principale): fu al campo di raccolta di Fossoli che Primo Levi venne imprigionato, prima di essere deportato ad Auschwitz nel febbraio 1944. Dopo un periodo più o meno lungo passato nel campo di prigionia, il detenuto veniva quindi rilasciato oppure, nella maggior parte dei casi, inviato ai campi situati nelle regioni centro-settentrionali d’Europa (Germania, Polonia) per essere rinchiuso in un campo di concentramento, un campo di lavoro oppure un campo di sterminio.

L’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz (dal sito Storia e memoria di Bologna)

I campi di lavoro, come quello in cui fu rinchiuso Primo Levi, erano costruiti per soddisfare il fabbisogno di manodopera che con la guerra necessitava di essere mantenuto a basso costo; i “lavoratori” erano civili imprigionati in questi campi, portati allo stremo delle forze, nutriti con quanto bastava per la sopravvivenza (un rancio fatto spesso di zuppa acquosa e pane duro), ma non per sopperire allo spreco di energie. Molti di questi prigionieri morivano di lavoro, di stenti e a causa delle condizioni igienico-sanitarie pessime, per le quali non ricevevano alcuna cura nemmeno nell’infermeria del campo: chi andava in infermeria, infatti, solamente nella migliore delle ipotesi ne usciva; nella peggiore, dall’infermeria si passava al crematorio.

I campi di sterminio erano invece campi di concentramento realizzati con il solo scopo di uccidere i prigionieri. Molti campi di concentramento operavano in entrambe le direzioni, essendo il lavoro massacrante e le condizioni di “vita” completamente inadatte alla sopravvivenza di un essere umano per più di qualche anno; chi riusciva a resistere alle vessazioni mirate, organizzate e precisamente calcolate dei suoi aguzzini non poteva comunque aspettarsi di riuscire a farlo per sempre, e tutti i prigionieri erano a conoscenza del fatto che dai campi non ci sarebbe stata una via d’uscita, se non “per il Camino”**.

** Espressione che compare nel libro Se questo è un uomo, indica il camino del forno crematorio


I corpi dei detenuti rinvenuti dopo la liberazione di Dachau (immagine tratta dal sito Libero, caricata dal profilo di Francesco Coluccio)

La vita nei campi di lavoro e di sterminio

Fin dall’inizio, il detenuto veniva trattato alla stregua, se non in modo ancor più infimo, di una bestia: per il trasporto delle migliaia di persone che, ogni giorno, venivano mandate ai campi, si utilizzavano treni per la merce o per il bestiame; le persone venivano quindi fatte salite a centinaia in ogni vagone, stipate e chiuse nell’angusto spazio con le porte sigillate perchè non potessero uscire. Il viaggio, che poteva durare anche una settimana o più, avveniva nel buio più completo, senza cibo, acqua, né soste; all’arrivo, molte persone erano già morte, ma mai più di quelle che erano arrivate, stremate, ma vive.

“Nella notte tra il 18 e il 19 novembre [1942] è arrivato un trasporto di invalidi come a Dachau non si era mai visto prima. 350 persone sono state portate in vagoni bestiame e non, come avviene di solito, fino alla stazione di Dachau, ma fin dentro il campo delle SS. Tutti i vagoni erano chiusi con i chiodi. I 350 sfortunati sono quindi rimasti per tutto il viaggio dal campo di Stutthof, vicino a Danzica, fino a Dachau, otto giorni interi senza mangiare, senza aria e senza la possibilità di fare i propri bisogni … Cadaveri viventi è dire poco… Dei 350 trasportati, 57 sono stati portati fuori da vagoni già morti. Tre di questi avevano le braccia e le gambe mutilate e spolpate fino all’osso.”

Dal diario di Karel Kašák, tratto dal libro “Il campo di concentramento di Dachau dal 1933 al 1945”, p. 189

Dopo l’arrivo al binario, i detenuti venivano quindi smistati: le donne erano divise dagli uomini; i bambini venivano divisi dai genitori; gli anziani e coloro che, per criteri completamente arbitrari, venivano determinati inadatti al lavoro dall’ufficiale di turno venivano scortati direttamente alle camere a gas, da cui non avrebbero più fatto ritorno.

Forni crematori ad Auschwitz (immagine tratta dall’articolo su Rai Cultura)

A seconda del tipo di campo, della quantità di prigionieri e delle necessità, anche donne e bambini venivano mandati alle camere a gas; i bambini che invece venivano scelti potevano essere costretti a seguire gli adulti ai lavori forzati (nel libro Il campo di concentramento di Dachau dal 1933 al 1945, p. 156, si menziona un detenuto undicenne, che lavorava alle piantagioni del campo***) oppure, destino purtroppo ancora più atroce, erano consegnati alle mani di qualche “medico” che avrebbe condotto su di loro esperimenti di vario tipo. La sperimentazione umana era, ad esempio, una delle specializzazioni del campo di Dachau, in cui migliaia di persone persero la vita non solamente per via del lavoro massacrante, ma anche all’interno di esperimenti come quelli per determinare le capacità dell’essere umano di sopravvivere all’ipotermia, in condizioni di bassa pressione (per imitare l’alta quota) e bevendo solamente acqua salata.

Non si trattava di bambini, in questo caso: centinaia di uomini e donne sinti e rom vennero utilizzati come cavie umane per questi esperimenti.

*** Karel Kašák parla di Ivan Savinych, rappresentato anche in un suo schizzo mentre si trova nella “piantagione” di Dachau; oltre all’undicenne Ivan, nel suo diario, Kašák racconta di “esattamente 19, ragazzi tra i 10 e i 14, due di loro hanno quasi 15 anni. Quasi tutti vivono già da due anni in diversi campi di concentramento tedeschi”.


Cavia umana in un esperimento a Dachau (immagine tratta dal libro “Il campo di concentramento di Dachau dal 1933 al 1945, p. 181)

“Sinto di Monaco, Karl H. venne deportato nel marzo del 1943 nel campo di sterminio di Auschwitz, dove fu uno dei pochi Sinti a sopravvivere. All’inizio di agosto del 1944 venne trasferito a Buchenwald, dove venne scelto con altri Sinti per fare da cavia negli esperimenti di potabilizzazione dell’acqua di mare in corso a Dachau. I Sinti vennero suddivisi in quattro gruppi: al primo venne vietata ogni assunzione di cibo e acqua, al secondo venne somministrata solo acqua di mare, al terzo acqua di mare con l’aggiunta di un additivo di gusto e al quarto acqua di mare desalinizzata chimicamente. Karl H., che era stato inserito nel terzo gruppo, sopravvisse agli atroci esperimenti, che durarono in molti casi fino a 12 giorni. Dopo la guerra testimoniò al processo di Norimberga contro i medici nazisti.”

Dal libro “Il campo di concentramento di Dachau dal 1933 al 1945”, p. 185

Primo Levi, in Se questo è un uomo, rende estremamente chiaro che nel campo di concentramento (nel suo caso, Auschwitz) non ci fossero momenti di riposo o sicurezza: non solamente il lavoro, ma anche le attese erano sfiancanti.

Appena dopo l’arrivo si veniva costretti a denudarsi dei propri abiti, e si doveva aspettare per lavarsi, o anche solo sedersi; dopo ore passate in piedi ad attendere il permesso di potersi fare una doccia, si doveva passare per una lunga trafila di protocolli per ricevere i propri “nuovi” indumenti (recuperati tutti dai cadaveri dei prigionieri morti), il numero tatuato sul braccio, la gamella per il rancio e gli altri effetti personali. Le baracche erano riempite attraverso criteri organizzativi precisi; i tempi di risveglio e di lavoro erano scanditi con estremo rigore, così come tutte le operazioni di cura personale e di risoluzione dei problemi.

“Conosciamo già in buona parte il regolamento del campo, che è favolosamente complicato. Innumerevoli sono le proibizioni: avvicinarsi a meno di due metri dal filo spinato; dormire con la giacca, o senza mutande, o col cappello in testa; servirsi di particolari lavatoi e latrine che sono «nur für Kapos» [“per soli caposquadra, o Kapo”, n.d.R.] o «nur für Reichsdeutsche» [“per soli cittadini tedeschi”, n.d.R.]; non andare alla doccia nei giorni prescritti, e andarvi nei giorni non prescritti; uscire di baracca con la giacca sbottonata, o col bavero rialzato; portare sotto gli abiti carta o paglia contro il freddo; lavarsi altrimenti che a torso nudo.


Infiniti e insensati sono i riti da compiersi: ogni giorno al mattino bisogna fare il letto, perfettamente piano e liscio; spalmarsi gli zoccoli fangosi e repellenti con l’apposito grasso da macchina, raschiare via dagli abiti le macchie di fango (le macchie di vernice, di grasso e di ruggine sono invece ammesse); alla sera, bisogna sottoporsi al controllo dei pidocchi e a controllo della lavatura dei piedi; al sabato farsi radere la barba e i capelli, rammendarsi o farsi rammendare gli stracci; alla domenica, sottoporsi al controllo generale della scabbia, e al controllo dei bottoni della giacca, che devono essere cinque.


Officina in cui i detenuti erano costretti a lavorare, Dachau (immagine tratta dall’articolo su Rai Cultura)

[…] E in tutto questo, non abbiamo ancora accennato al lavoro, il quale è a sua volta un groviglio di leggi, di tabù e di problemi.
Tutti lavoriamo, tranne i malati (farsi riconoscere come malato comporta di per sè un imponente bagaglio di cognizioni e di esperienze). Tutte le mattine usciamo inquadrati dal campo alla Buna; tutte le sere, inquadrati, rientriamo. […]


L’orario di lavoro è variabile con la stagione. Tutte le ore di luce sono ore lavorative: perciò si va da un orario minimo invernale (ore 8-12 e 12,30-16) a uno massimo estivo (ore 6,30-12 e 13-18). Per nessuna ragione gli Häftlinge possono trovarsi al lavoro nelle ore di oscurità o quando c’è nebbia fitta, mentre si lavora regolarmente anche se piove o nevica o (caso assai frequente) soffia il vento feroce dei Carpazi; questo in relazione al fatto che il buio o la nebbia potrebbero dare occasione a tentativi di fuga.
Una domenica ogni due è regolare giorno lavorativo; nelle domeniche cosiddette festive, invece di lavorare in Buna si lavora di solito alla manutenzione del Lager, in modo che i giorni di effettivo riposo siano estremamente rari.”

Dal libro “Se questo è un uomo” di Primo Levi, pp. 46-49

Al detenuto, emaciato, stremato e spesso persino indisposto, si richiedeva la disciplina di un militare: svegliarsi per l’appello, rassettare il letto, pulire la stanza, lavarsi rigorosamente, presentarsi e riconoscere il proprio numero e le istruzioni date in tedesco, svolgere il lavoro (pesantissimo) senza restare indietro, mangiare, e poi presentarsi all’appello della sera. Quando un detenuto era impossibilitato a lavorare veniva mandato o si recava da solo in infermeria, dove la trafila per essere ammessi era ugualmente lenta e stremante, e le possibilità di sopravvivere alle “cure”, decisamente disinteressate, dei “dottori”, erano minime.

“Ka-Be è un’abbreviazione di Krakenbau, l’infermeria. Sono otto baracche, simili in tutto alle altre del campo, ma separate da un reticolato. Contengono permanentemente un decimo della popolazione del campo, ma pochi vi soggiornano più di due settimane e nessuno più di due mesi: entro questi termini siamo tenuti a morire o a guarire. Chi ha la tendenza alla guarigione, in Ka-Be viene curato; chi ha tendenza ad aggravarsi, dal Ka-Be viene mandato alle camere a gas.”

Dal libro “Se questo è un uomo” di Primo Levi, p. 63
Sopravvissuti al campo di Ampfing nelle baracche dopo l’arrivo dei soldati americani (immagine tratta dal sito United States Holocaust Memorial Museum)

Punizioni e morte nel campo

Per chi trasgrediva le regole, e anche per chi, semplicemente, infastidiva gli ufficiali o i soldati di guardia, c’erano punizioni molto variegate, che avevano il solo scopo di umiliare, fiaccare e, talvolta, uccidere, i detenuti: spesso i prigionieri venivano picchiati; talvolta appesi per le braccia e fustigati o bastonati mentre i cani venivano aizzati contro di loro. Alcuni soldati a Dachau torturavano le loro vittime immergendole per la testa nell’acqua del vivaio delle carpe, e tenendo loro i piedi alzati; così racconta Grand, detenuto nel campo dal 1939 al 1941. A Dachau, come in molti altri campi, c’erano anche i cosiddetti bunker, ovvero delle strutture di prigionia interne al campo di concentramento: i detenuti venivano chiusi in celle alte e strette, buchi, essenzialmente, in cui distendersi o sedersi era impossibile; venivano lasciati lì, costretti a stare in piedi, senza cibo né acqua per un tempo che era stabilito dagli ufficiali. Nello stesso edificio erano presenti celle più grandi, per isolare i dissidenti.

“Sono pene dell’inferno! Tutto il corpo è appeso alle braccia legate dietro la schiena. E i mostri ti stanno davanti, ridono dei tuoi dolori, ti chiedono se ora vuoi confessare, ti colpiscono in viso e ti tirano da tutte le parti. Se taci ti fanno oscillare e spesso, e contemporaneamente, ti prendono pure a bastonate.”

Edgar Kupfer-Koberwitz, detenuto a Dachau dal 1940 al 1945, come citato nel libro “Il campo di concentramento di Dachau dal 1933 al 1945”, p. 118

Oltre alle percosse e alle torture, molti detenuti venivano semplicemente uccisi; si giustificavano le morti come suicidi per impiccagione, o, se le guardie sparavano al detenuto, come la risposta ad un “tentativo di fuga” da parte del prigioniero, che veniva spesso fucilato nei pressi di un cancello o di un reticolo di filo spinato, e là rimaneva. La morte, in particolare negli ultimi anni di guerra, nei campi di concentramento era un avvenimento quotidiano: si moriva lavorando, si moriva stando in piedi per l’appello, o camminando per strada; e i corpi, come lo erano stati in vita, erano completamente privati di ogni dignità.

Disegno di Zoran Mušič, detenuto a Dachau dal 1944 al 1945
L’opera, intitolata “Dachau”, fu donata nel 1995 al Centre Pompidou dallo stesso artista
(immagine tratta dal sito del Centre Pompidou)

Venivano caricati su carriole o carri, spesso dai detenuti stessi che avevano, fino a poco tempo prima, parlato con loro e dormito nella loro baracca, e portati al crematorio. Nel crematorio i corpi venivano quindi ammassati finchè non venivano portati nei forni e bruciati; quando le morti cominciarono ad essere troppe, in alcuni campi di concentramento si cominciarono a scavare delle fosse comuni dove gettare le montagne di cadaveri. Dopo l’arrivo degli Alleati e la liberazione dei campi di concentramento, i soldati trovarono vagoni interi di cadaveri su treni merci, e montagne di corpi nei crematori.

“La prima cosa che scoprimmo avvicinandoci fu un tratto di binario che usciva dal campo e su cui si trovavano numerosi carri merci scoperti. Attraversandolo lanciammo un’occhiata all’interno dei vagoni. Quel che vedemmo fu il più terribile spettacolo che avessimo mai avuto occasione di vedere: i vagoni erano pieni di cadaveri, quasi tutti nudi e ridotti a pelle e ossa. Molti avevano un foro di pallottola nella nuca. […]”

Lettera del Lt. Bill Bowling alla famiglia, aprile 1945, come citato nel libro “Il campo di concentramento di Dachau dal 1933 al 1945”, p. 202
I soldati americani obbligano alcuni ragazzi tedeschi a vedere i corpi dei detenuti di Dachau, scoperti qualche giorno prima sui treni merci dopo la liberazione del campo (immagine tratta dal sito United States Holocaust Memorial Museum)

Perchè festeggiare una ricorrenza così tragica?

Il Giorno della Memoria si celebra il 27 Gennaio, giornata in cui, nel 1945, fu ufficialmente liberato dalle truppe sovietiche il campo di concentramento di Auschwitz ; non si tratta propriamente di “festeggiare”, in quanto è una ricorrenza posta per ricordare, appunto, le atrocità commesse dai regimi nazista e fascista.

Una giornata come quella del 27 Gennaio non è solamente una celebrazione, ma la testimonianza che tali orrori sono avvenuti, e possono ripetersi: è importante ricordare, in particolare in tempi come questi, in cui i sopravvissuti stanno pian piano sparendo, e, con loro, così sembra, la memoria di fatti che non devono più accadere.

È importante ricordare, perchè solo così potremmo assicurarci che qualcosa del genere non accada più, o che non stia già accadendo, da qualche parte nel mondo; forse non in Europa, stavolta, e forse in modi più sottili, attraverso giustificazioni che ci fanno pensare “di certo non sta succedendo davvero”, “di certo non succederà a me”, “di certo non succederà di nuovo”, o anche, semplicemente, “di certo c’è una ragione”.

La Storia ci insegna che è già successo; e sì, può accadere di nuovo.


Qui un articolo di @irn.lnz a cui ha contribuito.

Qui l’articolo sul Lucca Comics 2023.

Qui il link all’articolo di presentazione della sua rubrica musicale (non più attiva) Inaudito!

Autore: Beatrice Carpina

Su instagram @scrawny_raccoon, classe 2001, da sempre residente a Pisa, ma non “propriamente” pisanə. Pecorə nerə in una famiglia di ingegneri e informatici, scrive libri per necessità. Nel tempo libero cerca di studiare e si lascia distrarre da progetti al di fuori della sua portata.Ascolta musica 24 ore su 24, 7 giorni su 7, 365 giorni all’anno.


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