Arte al cinema – Oppenheimer, o il moderno Prometeo

Se avete l’impressione che il calendario delle uscite cinematografiche di queste settimane sia particolarmente affollato, beh, avete ragione.

Molte case di distribuzione stanno infatti sfruttando la pubblicità “gratuita” (si fa per dire) data dalle numerose nomination agli Oscar ricevute dai titoli nel loro listino: parliamo di The Holdovers di Alexander Payne (uscito giovedì 18), Povere creature! di Yorgos Lanthimos (al cinema da questa settimana) ed addirittura del ritorno, cinque mesi dopo l’uscita italiana, di uno dei film simbolo del 2023 cinematografico: Oppenheimer di Cristopher Nolan.

L’ultimo film del regista britannico, secondo incasso mondiale dell’anno appena passato (ma terzo in Italia, con C’è ancora domani davanti a tutti), complici le vittorie ai Golden Globes e ai Critics Choice Awards e le numerose nomination ottenute (ben tredici, una in meno del record di Eva contro Eva, Titanic e La La Land), si presenta alla Notte delle Stelle come indiscusso favorito per la vittoria delle statuette più ambite.

Pur avendo ricevuto reazioni per lo più positive da parte di critici e addetti ai lavori (culminate con le nomination di martedì), in questi mesi Oppenheimer ha anche attirato critiche negative, principalmente per qualcosa che il film non ha mostrato: la sofferenza dei giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, un approfondimento della figura di Jean Tatlock, e così via.

Ritenendo tuttavia questi approcci poco utili per un’analisi del film, in questa sede preferiamo concentrarci su quello che invece Oppenheimer sceglie di farci vedere.

Proprio alla vista è legata (e lo rendevano chiaro già le immagini promozionali, come quella qui sopra) la scena madre del film, la magistrale sequenza del test atomico nel deserto di Los Alamos, allestito da Oppenheimer come se fosse un set cinematografico di cui Cillian Murphy è, ovviamente, il regista.

Il fatto che l’esplosione avvenga in una landa del West sottratta agli indiani aggiunge ulteriore valenza a questo parallelo: lì dove è nato il mito americano, per il quale il genere western è stato l’equivalente dei poemi omerici per la civiltà greca, nasce con (o meglio, per colpa di) Oppenheimer il mondo moderno, segnato dalla minaccia costante della guerra nucleare.

Il paradosso di Oppenheimer diventa chiaro pochi minuti dopo, quando lo scienziato, mentre annuncia ad una folla trionfante l’esito “positivo” del bombardamento di Hiroshima, viene raggiunto da visioni di corpi carbonizzati e annichiliti.

Quello che per tutti rimarrà il più grande successo della sua carriera è in realtà per Oppenheimer la sua più grande colpa.

L’ambizione di Nolan è dunque massima: raccontare una figura così contraddittoria e chiaroscurale, decisiva per le sorti dell’umanità, senza giudicarla, lasciando l’ultima parola agli spettatori.

Risulta quindi significativo che Oppenheimer sia anche, soprattutto nella seconda parte, un film processuale, e più in particolare un legal thriller. È proprio il thriller, nelle sue varie sfaccettature, il genere che il regista ha frequentato con più continuità: attraverso sperimentazioni postmoderne col montaggio (Memento) o in forma più classica (Insomnia) o visionaria (Inception), nella variante spionistica (Tenet, che è il suo 007, o se preferite il suo Intrigo Internazionale) o tramite l’ibridazione con altri generi cinematografici (la fantascienza in Interstellar, il biopic in quest’ultimo film).

Grazie a queste contaminazioni che ne innervano la struttura, Oppenheimer riesce ad evitare le trappole del film biografico, genere stantio e ingessato, dipingendo un affresco complesso e stratificato su una delle figure più contraddittorie del Novecento, un moderno Prometeo con la cui eredità saremo per sempre costretti a fare i conti.

Appassionato di cinema ai confini con la malattia, tra David Lean e David Lynch. A volte vorrei vivere in La rosa purpurea del Cairo.

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