La recensione dell’ultimo film di Kaurismaki, attualmente al cinema
È forse ancora presto per pretendere che il cinema faccia i conti in maniera sistematica con la guerra in Ucraina. Certo, cineasti di quelle zone da anni cercano di accendere un faro su quello che sta succedendo già da prima dell’invasione russa del febbraio 2022 (rivedere Reflection (2021) di Valentyn Vasyanovich per credere).
Durante l’anno appena trascorso tuttavia due film passati nel circuito internazionale dei festival hanno affrontato la questione, più o meno direttamente: il documentario Superpower di Sean Penn e Aaron Kaufman, presentato Fuori Concorso a Berlino, e Foglie al vento del regista finlandese Aki Kaurismaki, Premio della Giuria a Cannes ed attualmente al cinema.
Penn ha affrontato la questione di petto, forte della propria presenza (quasi fortuita) in Ucraina al momento dell’invasione russa, e nel documentario mostra un momento Storico irripetibile: l’incontro con Volodymyr Zelensky all’indomani dell’attacco (massacrandolo maldestramente con un montaggio da macellaio, rivelandosi non all’altezza delle immagini che -non- mostra).
Kaurismaki fa entrare la guerra nel suo film grazie ai (o per colpa dei) radiogiornali, evitando accuratamente di mostrarne un solo fotogramma e tenendola costantemente sullo sfondo. Perché la storia d’amore di Foglie al Vento tra la lavapiatti squattrinata Ansa (Alma Poysti) e il manovale alcolizzato Holappa (Jussi Vatanen), ennesimo etilista della filmografia del finlandese, è una reazione naturale e pacata alla violenza dei conflitti (di cui quello russo-ucraino si fa perciò metonimia), l’unica risposta possibile al non-senso insito in tutte le guerre.
Lo sguardo del regista è da sempre rivolto verso gli ultimi, animato non tanto da un attivismo militante à la Ken Loach, quanto da una profonda ed accorata solidarietà che contamina i suoi personaggi; come l’infermiera dell’ospedale, che regala i vestiti di un suo ex ad Holappa, rifiutando la prospettiva di un pagamento in denaro.
Mille suggestioni cinefile percorrono il film senza appesantirlo, innervandolo di sottotesti con la stessa discrezione ed essenzialità che caratterizza lo stile del finlandese (anche nella durata: 85 piacevolissimi minuti), con l’attenzione sempre rivolta all’umanità dei suoi protagonisti (in questo senso, l’omaggio finale a Charlie Chaplin è ben più di una semplice strizzata d’occhio).
E per quanto Kaurismaki cerchi di depistare lo spettatore, sia con la trama (succede di tutto: numeri di telefono scritti su esili bigliettini che volano via trasportati dal vento, risse, licenziamenti, gente investita fuoricampo sulla strada per l’appuntamento romantico, addirittura un risveglio dal coma) che con la cinefilia (quando i due parlano fuori dal cinema dove sono andati a vedere I morti non muoiono di Jarmusch al loro primo appuntamento, dietro di loro si intravede il manifesto di Breve Incontro, il tristissimo capolavoro di David Lean), mai come questa volta il consueto lieto fine sembra non essere mai stato davvero in discussione.
“-Ho smesso di bere. -Perché? -Per te.” Ecco.

Appassionato di cinema ai confini con la malattia, tra David Lean e David Lynch. A volte vorrei vivere in La rosa purpurea del Cairo.