La Cantautrice: Dayna Kurtz a Capannoli, 16/12/2023

Ci sono artisti per i quali le parole si sprecano. Dayna Kurtz suona con Robert Maché al Teatro Comunale di Capannoli in una delle pochissime date italiane, e noi la ascoltiamo.

dayna
Dayna Kurtz e Robert Maché al Teatro di Capannoli. Foto dell’articolo per cortesia di Andrea Lupi

Una sera di dicembre

A volte Radioeco lascia Pisa. Lo fa in occasione di eventi unici che non prevedono repliche in ambito nazionale.
Ci siamo già avventurati al Teatro Comunale di Capannoli durante la scorsa primavera, e quella volta come oggi in occasione di un concerto, come allora un sabato sera. Allora parlammo del bell’album solista di Andrea Lupi, SoLo. Stasera invece Andrea Lupi sale sul palcoscenico nella veste di presentatore: è lui ad introdurre prima la stagione del teatro col suo fitto programma e poi le due cantautrici della serata, Dayna Kurtz – accompagnata da Robert Maché – e Giulia Pratelli in apertura.

Cantautorato al femminile

dayna
La cornice del teatro di Capannoli col suo pubblico e Giulia Pratelli in scena

L’apertura del concerto è in mano a Giulia Pratelli, giovane cantautrice di zona affermata ormai da qualche anno. In questo freddo sabato sera di dicembre le dieci sono già passate. Serve una presenza rassicurante come la sua a riscaldare l’atmosfera, a battere la via per il passaggio di Kurtz.

Ci riesce bene: in una setlist non troppo breve trova il tempo di proporre assaggi diversi – canzoni dal suo ultimo album, cover, qualcosa di tradizionale intrecciato alla sua attività di cantautrice, un richiamo al nuovo libro in uscita. Pratelli imbastisce un hors d’oeuvre tale da rimanere sazi e al termine del quale si ha l’impressione di conoscerla già. I temi seguono variegati e anche importanti, come la violenza sulle donne. Lo stile è soffuso, rotondo, spesso raccolto tra le pieghe di un’intimità da lasciar sbocciare, agli antipodi rispetto a quello di Dayna Kurtz. Certo un così piccolo assaggio non permette di categorizzare l’artista. Vero è anche, però, che l’appetito vien mangiando.

Ascoltare Dayna Kurtz

Ci sono artisti per i quali le parole si sprecano.

La musica di per sé rifugge il confine del racconto. Questione irrisolvibile e annosa: poiché la musica è una delle poche arti, come il teatro, del tutto legate al tempo nella sua accezione consequenziale, l’atto stesso di scrivere riguardo ad essa parole che possano essere lette e ripetute contraddice la sua effimerità intrinseca. Il rischio diventa quello di arrabattarsi in fallacie come fu l’idea di trascrivere foneticamente l’eloquio di Oscar Wilde. Pur evitando ridondanze e tagliando ai margini, l’approssimazione di un racconto riesce generalmente a definire i contorni dell’esperienza con una certa veridicità. Non è sempre così.

Prima di continuare col racconto della serata l’invito è uno solo: ascoltare Dayna Kurtz.
Farlo davvero, con pazienza e una traduzione a lato se non si mastica l’inglese, il suo spregiudicato americano. Per fortuna – o disgraziatamente – i mezzi odierni permettono di consumare musica in ogni momento. Nulla sostituisce il concerto dal vivo, ma in casi come questi una qualche forma di ascolto diventa necessaria. La playlist che ho confezionato al termine dell’articolo segue la scaletta del concerto in questione.

Dayna Dayna Dayna!

Le chitarre aspettano già sul palcoscenico vuoto quando Dayna Kurtz e Robert Maché salgono. Nessun salamelecco prima di imbracciare gli strumenti. Dayna non parla l’italiano, ma il suo stratagemma per tradurre i titoli delle canzoni o i termini salienti consiste nel trasformare l’inglese in qualcosa che all’italiano assomiglia. Invocation diventa allora invocassiòn. Nonostante le storpiature tutti capiscono che cosa intenda, soprattutto nel momento in cui continua: invocassiòn alla musa.

L’ambiente musicale non potrebbe apparire più semplice: due persone, due chitarre, una voce femminile e il controcanto occasionale di una voce maschile. Proprio quest’apparente frugalità di sfondo esalta la ricchezza della voce di Dayna. Non serve altro.

La bocca stessa della cantautrice, nelle parole che canta e nella voce mediante cui lo fa, rappresenta il senso del concerto. Che dire della voce? Uno strumento rovente, ora morbido ora roco, sempre corposo, modulato con la maestria di chi modella qualcosa tra le mani. La voce trasporta un sentimento indicibile. C’è qualcosa di nascosto e indescrivibile, sperimentabile solo attraverso l’ascolto, che Dayna Kurtz offre con naturalezza. Qualcuno l’ha individuato in un senso di disperazione. Altri hanno rinunciato alla ricerca, accontentandosi di nominarla il Bob Dylan femminile. A noi le derivazioni non piacciono e ci accontentiamo di constatare l’unicità di Kurtz senza altre pretese. Peraltro suona benissimo la chitarra e un bottleneck non manca mai al suo dito.

dayna
Dayna Kurtz, Robert Maché e Macca traduce i racconti di lei

Oltre il genere

Dayna Kurtz è tutta americana, ma per sua stessa ammissione rifugge le categorie di generi e sonorità. Sostiene che la buona musica sia tale e basta – citando Falco diremmo che la musica si divide in due uniche categorie, cioè quella buona e quella cattiva – senza condizioni aggiunte, e noi siamo d’accordo. Robert Maché suona con grande eleganza, sempre al fianco della narrazione, all’interno della musica.

Così: Invocation è la preghiera folk di una figliol prodigo che chiama mama (anche) la Musa; Love Gets In The Way è una ballata intensa, subito contrastata da quella che Kurtz definisce una drinking song apocalittica contro il fascismo americano“, Raise The Last Glass. Segue una struggente cover di Reconsider Me scritta da Margaret Lewis e Mira Smith negli anni ’60, anch’essa una ballata a cavallo tra country e soul.

Poi i brani della band di Kurtz e Maché, chiamata Lulu and the Broadsides: Ice Cream Man – da cui Dayna si stupisce che in Italia i gelatai non vagolino su furgoncini musicali – e A Grade, giocate entrambe sul parallelismo tra uomini virili e mondo del cibo; How Do I Stop, scritta alla morte di Aretha Franklin in un certo senso proprio per essere cantata da lei; Razorburn Blues, sulle frustrazioni di quei rituali di bellezza che, almeno apparentemente, sembrano sinonimo con l’essere donna.

Di luoghi altrove

Ancora dichiarazioni d’amore come l’intima It’s How You Hold Me e Another Black Feather a voce spiegata.
In due occasioni sul palcoscenico si diventa tre. Suona la fisarmonica e traduce i racconti più lunghi di Dayna un giovane musicista di zona, Macca, già incontrato altre volte al Teatro di Capannoli.

Proprio lui introduce Venezuela, la trascrizione di un sogno sognato in Spagna dove la realtà è anch’essa sogno parallelo. Dayna sogna di trovarsi in Venezuela con la famiglia in un tempo antico, e un bell’uomo del luogo, Fernando, le illustra la città prima di confessarle d’averla amata e attesa tutta la vita. Dayna però nella realtà è sposata e nel sogno apre la camicetta per rivelare al centro della cassa toracica un cuoricino di carta, segnaposto per quello vero, incastrato altrove.

Macca ancora traduce la spiegazione dietro Paterson, racconto di un periodo triste di Kurtz chiuso peraltro da alcune frasi in italiano – data la forte presenza di immigrati italiani nella cittadina americana. Proprio questi ultimi hanno aiutato a suo tempo Kurtz nella stesura dei versi, così lei racconta.

Il concerto e la serata si chiudono con You’ll Always Live Inside Of Me. Kurtz guida il pubblico e chiede non solo di ascoltare, ma di cantare con lei, facendo proprie le parole del testo. Applausi, moltissimi.

La sera fredda di dicembre ci raccoglie appena fuori dal teatro.


Autrice: Lucrezia Ignone

Classe 2002. Studio Fisica all’UniPi ed Opera lirica fuori, oltre a coltivare mille interessi diversi. Curo un blog e sono coinvolta in più associazioni nazionali. La mia parola preferita è: polymathes. In RadioEco mi occupo principalmente di musica e della stagione lirica al Teatro Verdi di Pisa.
Mi trovi su @ffffoco assieme ai miei articoli.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *