Intervista al direttore artistico di Orlando Festival

Stasera, domenica 30 aprile, avrà inizio una nuova edizione dell’Orlando Festival. Per il decimo anno questo evento porta la città di Bergamo, che per il 2023 è capitale italiana della cultura, in un immersivo viaggio nella cultura queer. Identità diverse, nuovi orizzonti e inclusività, sono solo alcuni dei numerosi temi che verranno affrontati in questa settimana di Festival, che avrà luogo tra il 30 aprile e il 7 maggio. RumorEco ha avuto la possibilità di fare una chiacchiera con il direttore artistico del Festival, Mauro Danesi:

Orlando Festival

L’Orlando Festival è una manifestazione culturale queer che coinvolge diverse forme di espressione artistica, dal teatro, al cinema, alla performance. Che ruolo ricopre, secondo lei, una manifestazione come questa (e più in generale la cultura e l’arte nel loro insieme) nello sviluppo di una comunità più sensibile ai temi della giustizia sociale nei confronti delle minoranze?

Credo che la cultura possa essere uno strumento fondamentale e concreto per lavorare su questo tema. È questo che ha sempre spinto e valso, da dieci anni fa ad oggi, tutta la fatica per la realizzazione di questo progetto. Crediamo che attraverso la cultura si possano creare immaginari e raccontare storie, ma gli immaginari poi fanno la realtà. Perché tutti e tutte cresciamo avendo in mente delle immagini, dei modelli, delle storie possibili, quindi raccontare storie e immaginari plurali serve per creare quel campo di pensabilità, ovvero quello spazio in cui ciascuno di noi sceglie cosa vuol diventare. Quindi ecco che raccontare storie plurali diventa concretamente una cosa rivoluzionaria, e quando abbiamo creato il progetto dieci anni fa era proprio quello che sentivamo mancare: dieci anni fa in questo contesto, che è quello bergamasco, ci sembrava che venissero raccontate alcune storie ma non tutte, e che la vita fosse molto più complessa e plurale di quella che ci veniva raccontata attraverso la cultura all’epoca.

Lei che riscontro ha percepito dalla comunità bergamasca? Come si è relazionata negli anni questa città, questa comunità, al Festival e alla cultura queer in generale? È stato facile instaurare un dialogo relativo a questi temi sin da subito, oppure… ci stiamo ancora lavorando?

Non è stato facile, all’inizio c’era grande diffidenza, però i feedback ci rimandavano un’enorme sensazione di respiro, di aver trovato uno spazio che mancava. È per questo che tutta la fatica l’abbiamo affrontata con piacere, rimboccandoci le maniche, perché ci siamo accorti che aveva senso farlo. Devo dire che in dieci anni gradualmente la diffidenza è scesa. Certo, c’è ancora tantissimo da lavorare a livello sociale, non solo a Bergamo ma in tutto il contesto italiano, però la diffidenza è scesa.

Nel contempo è successo che noi abbiamo anche ampliato la sfida: l’intersezionalità è un po’ la chiave di questi ultimi anni, mentre forse dieci anni fa non lo era. Quindi abbiamo cominciato a intersecare le sfide sociali, e dunque parlare di amori possibili e di orientamenti sessuali non era distante dal parlare di abilismo o di differenti provenienze culturali. Tutto questo, tuttora, è accumunato da una stessa sfida sociale, da uno stesso desiderio di raccontare storie plurali e allargare gli orizzonti delle possibilità attraverso la cultura. Questo, inoltre, ha fatto sì che gradualmente abbiamo potuto costruire forti alleanze, sia tra minoranze che tra cittadini e cittadine che avevano a cuore sfide sociali differenti, ma che si ritrovavano in uno spazio comune.

Bergamo, insieme a Brescia, è la capitale italiana della cultura 2023. Come ha influito questa opportunità sullo sviluppo di questa edizione dell’Orlando Festival?

Opportunità… mi chiedo se lo sia davvero! Non voglio però parlarne male, anzi. È un anno complesso, di visibilità forte. Quello che noi abbiamo pensato, nel nostro piccolo, è: cosa possiamo apportare noi in questa annualità, dove si parlerà tanto di cultura? Abbiamo pensato di ribadire l’ingrediente che possiamo aggiungere a questa ricetta complessiva, che è la possibilità di parlare di ciò che sentiamo minorizzato o invisibilizzato di più in questi ultimi anni.

La nostra edizione di quest’anno si inserisce in questa capitale: lavoriamo tanto sull’accessibilità, e quindi sulla lotta all’abilismo. E abbiamo provato a mettere questo ingrediente anche nelle pratiche, non solo nei temi che raccontiamo. Infatti un grosso lavoro quest’anno è stato fatto con Al.Di.Qua Artists, che è un’associazione di artisti e artiste con disabilità che ci ha aiutato per esempio a lavorare sulla comunicazione del progetto, per raccontare quali sono le barriere dei vari eventi e per renderli più accessibili. Nei temi invece è rimasta la pluralità di sempre: parliamo di diverse provenienze geografiche; parliamo ancora di amori possibili, perché ce n’è bisogno più che mai; di identità. Quindi apportiamo quello che speriamo sia l’ingrediente che più ci caratterizza all’interno di un’annualità molto particolare, molto visibile, sperando che i nostri spazi possano essere utili a questa capitale.

Quest’anno è stato scelto il termine “obliquità” per rappresentare la direzione tematica del Festival. In quale modo questa parola descrive questa decima edizione?

Il queer è ciò che è obliquo. È l’etimologia, e uno dei tanti significati del termine. Vogliamo invocare la parola “obliquità” come una pratica di attraversamento: attraversamento dei contesti, delle sfide sociali, e dei pubblici, di quelle bolle sociali apparentemente distanti. È una sfida enorme perché ci vuole tantissima energia per mettere in atto davvero questa cosa, per attraversare contesti sociali e intersecare generazioni, pubblici diversi. È una sfida complessa ma in molti dei progetti che abbiamo portato abbiamo lavorato tanto nel backstage per provare ad affrontarla. Magari per piccoli numeri, perché i nostri progetti di quest’anno non sono per grandi masse, ma speriamo che davvero ci sia quello spazio per far attivare questi cortocircuiti.

Penso per esempio al progetto Dance Well Diffuso, che è un progetto di danza che nasce per persone con Parkinson ma che si allarga ad un pubblico eterogeneo. Dance Well Diffuso lo portiamo in giro per otto comuni delle province di Bergamo e Brescia, e sta partecipando una comunità di una trentina di persone fortemente miste: ci sono persone giovani, persone anziane, persone con Parkinson, e altre senza malattia, persone che danzano di professione, e altre ancora che si avvicinano per la prima volta alla danza, o che semplicemente vogliono scoprire gli spazi di cultura in modo differente. Per me questo è un piccolo esempio riuscito di come si possono attraversare i contesti.

Sabato 6 maggio avrà luogo la quarta edizione della rassegna Orlando Shorts, in cui verranno presentati dei cortometraggi queer curati da persone under 25 provenienti dalla realtà bergamasca e bresciana. Questa è una delle tante attività del Festival in cui i giovani e le giovani saranno protagonisti/e. Cosa rappresentano per lei le voci di queste nuove generazioni? Perché hanno un ruolo così rilevante all’interno del Festival?

Rappresentano tutto. Rappresentano quello che io vorrei fosse il Festival in futuro. Orlando Shorts è un ottimo esempio perché, nonostante possa sembrare un evento minoritario all’interno del palinsesto, per me è uno dei cuori. È nata questa rassegna qualche anno fa, e da allora non l’abbiamo più mollata.

I giovani rappresentano tutto perché se parliamo di allargamento degli orizzonti e delle possibilità, di rappresentazioni plurali, la giovane generazione è quella che porta soprattutto questa istanza, la pluralità di storia. Quindi è come se lì ci fosse la chiave per continuare questo lavoro di visibilità e di racconto di una società differente. Orlando Shorts è un piccolo esempio, ma molto prezioso per noi, perché in questo caso si fa un passo indietro in quanto direzione artistica senior e si demanda la selezione interamente a questo gruppo misto di ragazzi e ragazze. Ogni anno per me è una scoperta vedere che temi portano, quali sono le istanze, le urgenze. Ogni anno sono diverse e mi stupiscono: c’è un fortissimo impegno politico per esempio che rimotiva anche il mio modo di agire.

Orlando Shorts inoltre è un esempio di quel lavoro di cui parlavo sull’accessibilità, perché loro hanno scelto di sottotitolare i cortometraggi, ma anche con una sottotitolazione delle parti sonore in modo da renderle fruibili al pubblico sordo. E ci sarà un’introduzione in LIS per rendere accessibile anche quello che verrà raccontato prima della visione. Questo è un esempio di come non basti parlare dei bei temi, ma di come sia importante anche cercare di trasformarli in pratiche.

Sia nei film scelti per la rassegna Orizzonti Queer, che nei corti di Orlando Shorts, mi sembra chiara l’importanza della componente dell’autorialità. È una casualità oppure una scelta consapevole quella di privilegiare il lavoro d’autore? 

È una scelta consapevole. È una delle cifre da cui siamo nati e nate e resta per noi un desiderio. Innanzitutto per la qualità che questo lavoro può portare. Nonostante non ci sia qualità solo nell’autorialità, rimane una delle possibili vie di qualità, a cui noi teniamo molto. Ovviamente autorialità non è per forza opposto a mainstream, però ogni tanto sì! Quindi questo lavoro lo facciamo anche per dare visibilità a quelle zone che possono sembrare apparentemente marginali, ma che diventano dei punti di vista privilegiati per guardare e leggere la realtà in maniera diversa.

In questa edizione, inoltre, anche grazie ai diversi laboratori in programma, è prevista una partecipazione molto attiva del pubblico.

Esatto, ma in maniera molto libera. Come dicevo prima, in un anno dove ci sono tanti eventi per grandi numeri e molto frontali, noi abbiamo provato a proporre uno spazio di partecipazione, sia nei laboratori che in due delle performance principali: quella del collettivo della Corea del Sud, Elephants Laugh, e quella del collettivo svizzero Trickster-p. Sono dei lavori che mettono al centro le dinamiche e le interazioni, la partecipazione e lo stare insieme. Tutto con totale libertà, senza imposizioni, ma per noi era importante porre attenzione sull’aspetto dell’incontro tra artisti/e e pubblico, cittadini e cittadini.

Nel programma del festival è presente una “piccola nota sul linguaggio”, in cui viene preannunciato l’utilizzo di un linguaggio più inclusivo negli ambienti del Festival. Cosa vi ha spinto a prendere questa decisione?

Il dibattito sul linguaggio di genere è accesissimo, noi lo seguiamo e lo amiamo molto. Come dicevo gli immaginari creano realtà, e anche il linguaggio crea realtà, e quindi è fondamentale. Il dibattito è molto acceso negli ultimi anni e lo è anche la ricerca sperimentale, che non è ancora riuscita a trovare il linguaggio migliore. Ci sono state molte sperimentazioni, tra asterischi, schwa, troncamenti di parole, per superare quel binarismo di genere che ingabbia tutti e tutte e che vorremmo destrutturare. Il dibattito è complesso perché alcune modalità di superare il binarismo diventano non accessibili per esempio al pubblico cieco, che ha dei dispositivi di lettura che non leggono gli asterischi. C’è tanta complessità, ma è sempre così! Se vogliamo fare le cose meglio dobbiamo affrontare le complessità. Nella nostra piccola dichiarazione d’intenti di quest’anno riconosciamo che forse non c’è ancora una via giusta, sono tutte un po’ complesse, tutte un po’ imperfette. E allora per cercare la nostra via personale rivendichiamo il caos, le usiamo tutte! Mischiandole però: non useremo solo la schwa, non useremo solo gli asterischi o solo i troncamenti. Sicuramente non useremo il maschile sovraesterso, e cercheremo anche di non usare esclusivamente il maschile e il femminile, perché vorremmo superare il binarismo. Mischieremo tutti gli strumenti che sono presenti nel dibattito attuale. Non penso sia la scelta giusta, è solo quella che noi rivendichiamo come la nostra scelta di quest’anno. 

Ricordiamo che questa settimana di Festival però è solo una parte di un percorso più grande, che comprende la rassegna Orizzonti Queer iniziata a marzo, ma anche altri appuntamenti futuri, giusto?

Sì. La parte più intensa del Festival è questa settimana, dal 30 aprile al 7 maggio, però il progetto Dance Well Diffuso continuerà a navigare nelle province di Bergamo e Brescia fino a luglio. Inoltre ci sono due giornate di extra festival con due festival partener: uno è Up To You, un festival che amiamo molto e che è tutto fatto con persone giovani. È un progetto di direzione artistica fatta da un gruppo di under 25 che sarà il 19 maggio, e dedicheremo quella giornata al tema della decolonizzazione delle pratiche, dello sguardo e dell’arte. Invece il 16 giungo saremo col Festival Danza Estate, perché i corpi e la performance sono una chiave fondamentale per noi. Quella giornata sarà ancora dedicata all’accessibilità: assisteremo ad una performance di Aristide Rontini, performer con disabilità che fa parte di Al.Di.Qua Artists; e ad un laboratorio gratuito che mette al centro le pratiche legate all’abilismo in un laboratorio pratico e teorico condotto da Aristide Rontini e Diana Anselmo.


Vi invitiamo a scoprire più da vicino il mondo di Orlando. Ecco il link al programma di questa decima edizione:

https://www.orlandofestival.it/it/media/festival/documents/4ba044d3-3857-4cc0-9405-962425b5e4d5

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@orlandobergamo

Fabio Cominelli

Autore: Fabio Cominelli

Abbandonando i poster di Mina e Raffella Carrà appesi nella cameretta a Bergamo, la città d’origine, Fabio si reca a Pisa per studiare. Qui, unendo la propria passione per la cultura popolare, e l’ardente necessità di dare una voce ai più inascoltati, grazie a RadioEco dà vita alla rubrica “RumorEco!”.

@cominellifabio

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