EcoStoria: Esistono ancora i campi di concentramento?

Chiunque senta parlare di campi di concentramento non può evitare l’associazione immediata con il genocidio degli ebrei condotto dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale; a qualcuno magari vengono in mente anche i gulag di Stalin. Non che siano associazioni sbagliate, tuttavia i campi di concentramento non nascono nel contesto della Seconda guerra mondiale e non svaniscono con essa, ed è proprio a quest’ultimo punto che vorrei rivolgere l’attenzione con il pezzo di oggi.  

Un po’ di storia

Con l’espressione «campo di concentramento» si indica in senso lato un’ampia tipologia di luoghi di reclusione e di internamento finalizzati alla deportazione, al lavoro coatto e/o allo sterminio di grandi masse di persone: prigionieri di guerra (militari e civili), oppositori politici, soggetti appartenenti a specifici gruppi considerati a vario titolo «pericolosi», «inferiori».

Questa è la definizione che si trova sul sito della Treccani: in realtà penso che confonda un po’ le idee, perché sovrappone il concetto di campo di concentramento con campo di sterminio e di lavoro. Effettivamente nel contesto della Seconda Guerra Mondiale non si ebbe più una distinzione tra questi tre luoghi, tuttavia non è sempre stato così. Vi spiego.

I primissimi campi di concentramento risalgono alla fine dell’Ottocento: siamo a Cuba (all’epoca colonia spagnola), e l’isola viene attraversata da spinte indipendentiste le quali costringono la madrepatria ad intervenire per reprimere la ribellione. È in questo contesto che vengono ideati dagli spagnoli i campi di “riconcentramento”, ovvero luoghi in cui recludere la popolazione civile in modo che essa non fornisse aiuti ai guerriglieri. Non erano stati concepiti per sterminare la popolazione cubana (nonostante poi sarà una strage), né per costringerla a lavorare, bensì come luoghi di prigionia. Capite la differenza?

Come nel caso di Cuba, in questo stesso giro di anni i paesi che ricorsero ai Konzentrazion lager per imprigionare i civili lo fecero nel contesto delle guerre coloniali: gli americani li utilizzarono nelle Filippine, e gli inglesi durante la guerra anglo-boera in Sud Africa.

I lager saranno impiegati anche durante la Grande Guerra, in particolare dall’impero austro-ungarico, dalla Germania guglielmina e dalla Russia sovietica. In questi casi però venivano usati soprattutto come campi di prigionia per i militari e per gli oppositori politici, oltreché per confinarvi i civili dei territori occupati. Guardate questa mappa: erano tantissimi.

Figura 1. Grande Guerra. Veduta generale del campo d’internamento di Katzenau.

Bypassando il secondo conflitto mondiale, ritroviamo un impiego dei campi anche nel Cile di Pinochet tra il 1973 e il 1990, quando fu trasformata in un lager la miniera di salnitro di Chacabuco, città isolata nel deserto di Atacama, per recludervi gli oppositori politici; e ancora nella guerra di dissoluzione della Jugoslavia, tra il 1992 e il 1996, quando i bosniaci crearono il campo di Silos, a Tarcin, per imprigionarvi i serbi-bosniaci e i croati-bosniaci.

Siamo arrivati a tempi recentissimi, e giungiamo allora anche alla domanda del titolo:

Esistono ancora i campi di concentramento?

La risposta è sì: tutt’oggi in Cina sono presenti “campi di rieducazione” in cui vengono imprigionati gli Uiguri, una minoranza etnica di origine musulmana che vive nella regione dello Xinjiang, la zona arancione sulla mappa.

Perché succede questo? La risposta è complessa.

Figura 2. Cartina della Cina con la regione dello Xinjiang in arancione

Lo Xinjiang è una regione che nella seconda metà dell’800 era stata annessa alla Cina. Nel corso del ‘900 fu animata da spinte indipendentiste che trovarono l’appoggio dell’Unione Sovietica, che mirava a renderla un’altra repubblica sovietica a maggioranza musulmana come i vicini Kirghizistan, Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan. L’esperimento della repubblica fu realizzato per due volte fino alla presa del potere di Mao Zedong nel 1949. Da allora gli uiguri sono invisi all’autorità centrale cinese per via delle loro spinte indipendentiste.
L’altro aspetto da considerare è quello del terrorismo: alcuni uiguri avrebbero espresso simpatie per Al-Qaeda e un numero molto piccolo si sarebbe unito all’Isis. Questo ha portato Pechino a una conclusione del tutto falsa: ovvero che la maggior parte degli uiguri simpatizzerebbe per il terrorismo islamico e, errore ancor più grande, che proprio tramite l’imprigionamento nei campi di rieducazione di una buona parte della popolazione si possa eliminare questo (presunto) terrorismo. Questa è la scusa su cui insiste il governo cinese per giustificare la campagna contro la minoranza uigura.

In realtà il problema principale è religioso. Il PCC è sempre stato avverso alla religione, e la sua paura è che lo spirito musulmano degli uiguri possa legarsi a quello di altri gruppi musulmani cinesi non uiguri, e insieme possano portare avanti una rinascita religiosa generale che un giorno sradichi il suo potere. Di fatto i campi di concentramento in cui vengono rinchiusi gli uiguri sono concepiti con lo scopo di snaturare l’identità religiosa di questa minoranza islamica.

Figura 3. Si ritiene che sia un campo di rieducazione nello Xinjiang. Greg Baker/Agence- France Press- Getty images

Nel 2019 il New York Times ha ottenuto 400 pagine di documenti su come vengono organizzate le detenzioni di massa e la repressione degli uiguri. Qui si legge che il presidente della Cina, Xi Jinping, chiede ai suoi funzionari che gli estremisti religiosi siano trattati “senza alcuna pietà” e invita ad utilizzare tutti i mezzi disponibili per eliminare l’Islam dallo Xinjiang.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, nel 2018 circa un milione di uiguri si trovavano imprigionati in campi di concentramento, costretti ai lavori forzati a bassissimo costo, interrogatori, privazioni di cibo e del sonno, per essere educati a diventare buoni cittadini laici e sostenitori leali del partito, tramite anche lezioni, obbligo a parlare solo cinese e a celebrare le festività cinesi.

In quelle 400 pagine di documenti era presente anche un inquietante copione che i funzionari cinesi devono seguire per motivare agli studenti l’assenza improvvisa da casa dei genitori. Si legge su Il Post che «la guida contiene indicazioni precise sulle risposte da dare a domande quali: “dov’è la mia famiglia?”: «È in una scuola di formazione istituita dal governo», dice la guida. Ai funzionari viene poi data l’indicazione di spiegare che i genitori non sono dei criminali, ma che comunque non possono lasciare quelle “scuole”. La guida comprendeva anche una minaccia: agli studenti doveva essere detto che il loro comportamento avrebbe potuto ridurre o prolungare la detenzione dei genitori: «Sono sicuro che li sosterrai, perché questo è per il loro bene e anche per il tuo bene». La conclusione della guida è che i ragazzi dovrebbero essere grati alle autorità per aver portato via loro i genitori.

Figura 4. Filmati segreti ottenuti dal gruppo attivista Bitter Winter mostra le celle con sbarre e telecamere

Nel gennaio del 2021 Gli Stati Uniti hanno formalmente accusato la Cina di genocidio e crimini contro l’umanità nei confronti della popolazione uigura; lo stesso faranno Canada, Regno Unito e Unione europea.

Le autorità cinesi fanno il possibile, con i loro sistemi di repressione, per fare in modo che restino nascoste al resto del mondo le atrocità che stanno compiendo nello Xinjiang. Tuttavia, le condizioni di vita di questa minoranza sono rese note grazie alle inchieste come quella del New York Times ma soprattutto dalle testimonianze degli uiguri stessi, come questa che Gulbahar Haitiwaji ha rilasciato al Guardian, rinchiusa in un campo di rieducazione poiché la figlia aveva partecipato a una manifestazione estremista; oppure questa di Tursunay Ziawudun per la BBC, che testimonia le violenze subite dalle donne nei campi, costrette alla sterilizzazione forzata e a subire abusi: lei stessa fu portata nella “camera buia” e violentata con uno sfollagente.

È angosciante pensare che nel 2023 siano ancora possibili incubi come questo.

Autrice

Rebecca Bibbiani, classe 1999, laureata in lettere moderne e studentessa della magistrale in italianistica a Pisa. Benché l’indecisione sia uno dei suoi peggior difetti, c’è una cosa di cui è certa: – Nella mia vita voglio scrivere. Per questo ho deciso di entrare a far parte di RadioEco.

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