Dicono che il cinema sia un posto in cui svagarsi: ti siedi per un’oretta e mezza o due e stacchi la testa, smettendo di pensare alla laurea che viene sempre di più posticipata.
Certe volte è proprio così, altre volte ti ritrovi a piangere per due ore filate e non per gli esami che «escono dalle fottute pareti», ma per storie di sofferenza e solitudine che ti portano a pensare: “dai, forse la mia vita non è poi così orribile e quegli esami non sono poi così tanti”. Questo è il caso di The Whale, il nuovo film di Darren Aronofsky, che è riuscito a farmi piangere anche alla seconda visione.
Dunque, se anche a te piace versare lacrime la rubrica CinefiLife di RadioEco è qui per darti una mano, presentandoti un altro film dal regista di The Whale, che non potrà che regalarti emozioni molto simili, sto parlando di The Wrestler.
Paragrafi che troverai nell’articolo:
- Sacrificare il corpo
- Vivere di maschere
- Il vortice dell’ossessione
- Il doppio filo di Rourke e la direzione di Aronofsky
Sacrificare il corpo
Con The Whale potremmo dire che Aronofsky torna ad abbracciare il suo stile grottesco e centrato sul tema dell’ossessione, tuttavia unito al suo cinema più drammatico e forse più convenzionale, ma non per questo inferiore, che ha caratterizzato uno tra i suoi migliori lavori: The Wrestler.
The Wrestler è la storia di Randy “The Ram” Robinson (Mikey Rourke), un famoso wrestler i cui giorni di gloria risalgono agli anni ’80. Ora, 20 anni dopo, nonostante la continua voglia di esibirsi sul ring, Randy non è più l’uomo di un tempo. Siamo testimoni dell’autunno di un vecchio campione, ormai malridotto, incapace di dimenticare il passato, di uscire dalla sua dimensione di lottatore, e di rimediare ai continui fallimenti della sua vita affettiva che lo hanno lasciato in totale solitudine. La sua salute peggiora e si rende conto che continuando a salire sul ring potrebbe morire ma non riesce a smettere.
Nel film Il corpo gioca un ruolo chiave, del resto i Wrestler lavorano con il proprio corpo, dando adito ad acrobazie spettacolari, frutto dell’unione tra la lotta e lo spettacolo che mettono in scena. Uno spettacolo molto spesso violento e nel quale arrivano anche a ferirsi realmente.
Esemplare è la sequenza a inizio film di Randy che occultata una lametta sotto le fasce prottettive che gli avvolgono i polsi, utilizzerà la stessa di nascosto sul ring per ferirsi il volto; un modo per aumentare il realismo del combattimento. Un autolesionismo che ha il sapore di un sacrificio cristologico, da parte di un uomo che concede autonomamente in pasto il proprio corpo per l’amore verso il suo pubblico. Eppure dietro ai riflettori non vi è nessun “figlio di Dio”, vi è un essere umano sfollato, senza l’affetto di familiari, che ha offerto ogni pezzo di carne che lo compone.

Ma l’America appare attratta solo dalla persona esposta ai riflettori, e non riesce, o forse non le interesa neanche, entrare in contatto con la precarietà che c’è dietro. Perché, in realtà, agli spettatori non frega niente dei suoi idoli, ma solo dello spettacolo che gli stessi possono garantire, finché non cedono sotto il peso degli anni.
Randy è dunque carne esposta a un pubblico carnivoro, come lo è anche Cassidy (Marisa Tomei), l’unico contatto umano con il mondo al di fuori del ring per The Ram, ballerina che per vivere vende il proprio corpo, la propria carne. Entrambi usano il proprio corpo per vivere, entrambi sono in declino, entrambi sono tristi, ma c’è una differenza: Cassidy ha abbastanza carattere per provare a reagire e sarebbe pronta a iniziare una nuova vita con Randy se lui fosse disponibile, Randy però non riesce, impossibilitato a rinunciare alla propria maschera, ad utilizzare il corpo in una natura diversa da quella del ring.
La tenerezza dei suoi gesti e comportamenti fuori scena, in antitesi con lo stereotipo virile e violento del suo alterego lottatore, non trovano il modo di farsi accettare da un pubblico il cui sguardo rimane fisso sulla superficie della carne/immagine.
«A nessuno frega un cazzo di me» dice The Ram in una delle sue prese di coscienza.
Vivere di maschere
Interpretato da un Mickey Rourke mai migliore, quel poco di fortuna che Randy ha avuto è ormai un lontano ricordo. Vive nel suo furgone, la sua giacca è rattoppata con del nastro da elettricista. Indossa un apparecchio acustico. Fa affidamento su antidolorifici e steroidi.
Da giovane ha fallito come padre e ora sua figlia adulta (Evan Rachel Wood) non vuole avere più niente a che fare con lui.
Eppure continua a vestirsi in modo accattivante, finge di avere ancora la vitalità di un ventenne, anche quando un uomo di 20 anni più giovane di lui lo attacca sul ring con una sparachiodi.
Nel presente, Randy non può fare a meno di vivere nel passato, la maschera che gli hanno cucito addosso è ormai uno strumento che utilizza per non guardarsi realmente allo specchio, per non capire di non essere più quello di una volta.
Mentre lo spirito mente a sé stesso, la carne non può fare a meno di cedere al peso degli anni. E infatti, a seguito di un incontro piuttosto provante, il grande The Ram è vittima di un attacco cardiaco.
Un malore che sopraggiunge non tanto per le ferite riportate, quanto per il ricordo di queste: The Ram crolla a terra dopo essere stato medicato e aver rivissuto in flashback l’incontro (unico caso di tutto il film in cui viene a mancare la linearità narrativa). Non è un collasso della carne, presto rimarginata, ma la crisi spirituale di un uomo che presto dovrà fare i conti con la sua reale solitudine, non più protetto dai riflettori di un immaginario di consumo.
Il vortice dell’ossessione
L’infarto è la morte spirituale di The Ram, costretto al ritiro dallo sport che ama, ma è anche una possibile resurrezione (o forse passione?), un’opportunità per crearsi una nuova vita, o meglio, per provare un modo diverso di vivere oltre a quello del ring.
L’ex wrestler cerca dunque di riconciliare il rapporto con la figlia abbandonata in nome dello spettacolo, di rafforzare la sua relazione con Cassidy, di trovare un lavoro alternativo; «metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto, scelgo la vita» direbbe il protagonista di Trainspotting.
Ma, forse, anche questa è l’ennesima maschera, il tentativo innocente di sottrarsi ad un mondo che, tuttavia, pian piano torna a chiamarlo a gran voce. Lo spettacolo è pura morfina: è tra le urla e gli applausi scroscianti dei suoi fan che Randy trova l’unico modo per annacquare il dolore della sua solitudine, una condizione che gli pesa ma che sa anche di essersi meritato per i suoi errori e le sue debolezze…

Il ring è l’unico posto dove riesce a farsi amare, un’ossessione dalla quale tenta di sottrarsi, senza avere sufficiente coraggio per riuscirci veramente.
Perché questa è l’unica dimensione concepibile per un wrestler, non può esistere null’altro al di fuori di essa, ed è lì, nel ring, che si esprime e compie tutta la sua esistenza. Il percorso di cambiamento portato dal cedimento del cuore è netto: non resta che accettare il fallimento della propria vita, l’impossibilità di essere semplice o normale come gli individui che lo circondano, l’incapacità di inserirsi nella monotonia di un contesto sociale urbano qualsiasi. Del resto il corpo e il volto di Randy non hanno nulla di comune nelle loro evidenti forme alterate da combattimenti, droghe e chirurgia. Una sorta di moderno freak, che vive dello e nello spettacolo e che ha perduto la capacità di porre confini tra finzione e realtà, vita e illusione.
La vita reale è troppo normale per lui. La sua carne è forte e non sente i colpi dello spettacolo/macellaio, ma il suo spirito è debole: nonostante il ring lo stia uccidendo lentamente, non può fare a meno di tornarci, The Ram rinasce e dice «quello è l’unico posto dove non mi faccio del male».
Il doppio filo di Rourke e la direzione di Aronofsky
Mikey Rourke è la principale causa di successo del film, The Wrestler è infatti uno di quei pochi casi nei quali il profondo legame che si istaura tra le vicende personali dell’attore e quelle di finzione del personaggio si sovrappongono quasi fedelmente. Non che Rourke abbia avuto spazio nel wrestling, se non un piccolo cameo nel mondo del pugilato, ma la sua carriera come attore è quasi una parabola fedele alla carriera di The Ram: l’ex sex symbol, probabilmente non a caso, nell’epoca in cui il suo alter ego lottatore conosceva il momento di gloria, nel corso degli anni discese dal suo apice a causa di una vita di eccessi che ne hanno segnato il declino.
Questo legame a doppio filo ha contribuito alla nascita di una performance incredibile, anche grazie a una regia serrata sugli attori e documentaristica, che poggia le basi sul ricorrente mantra di Lars Von Trier «quando gli artisti soffrono, il risultato è migliore».
Nel momento in cui si crea un collegamento immediato e intimo tra l’autore, la storia racconta e lo spettatore, infatti, il risultato è sempre un film potente e intimamente sovversivo.
Certo, non si tratta né del primo né dell’ultimo film sulla solitudine, ma Aronfonsky prende una direzione tutta sua: Randy non elabora il dolore, ma è sempre più consapevole di provarlo, inseguendo il tema che ha spesso caratterizzato il cinema del regista: è impossibile sottrarsi da quello che si è, sia nel bene e che nel male.

Autore: Tommaso Corsetti

Nato nel 1999 e circondato dal mare, prima dell’isola d’Elba e poi della Sardegna, Tommaso dalle poltrone della sala, approda finalmente a quella davanti alla tastiera, per scrivere di ciò di cui ha sempre amato parlare: il cinema. Studente di Filosofia magistrale e ora in RadioEco, puoi trovarlo su instagram come @tomcorsetti_