Buongiorno a tuttǝ e bentornatǝ a RadioFemm, la rubrica femminista di RadioEco. Lo scorso lunedì si è parlato di crisi della mascolinità, e, continuando per questa via, oggi parleremo di mascolinità tossica.
Mascolinità tossica e binarismo di genere
Spesso in questa rubrica si è discusso intorno al binarismo di genere, ossia a quella modalità della società di affibbiare comportamenti, sfere di dominio, ma, anche, modi di vestirsi, muoversi e parlare, a seconda del sesso (maschio/femmina) di appartenenza.

Questo dualismo che storicamente contraddistingue rispettivamente i generi, sfocia, per quanto riguarda quello maschile, in quell’insieme di atteggiamenti e comportamenti che il femminismo recentemente ha denominato “mascolinità tossica”.
Si tratta di uno dei molteplici aspetti atto a sfatare il mito, per cui il femminismo sarebbe quel movimento “becero” che ha il fine di rivendicare il sesso femminile come superiore, e che non prevede una analisi e riscatto legato al genere maschile.
Tutt’altro. Il femminismo riguarda tuttǝ e, quindi, anche gli uomini.
Mascolinità e virilità
Come il femminismo riguarda tuttǝ, lo abbiamo già visto. Ora, quello che ci interessa è porre l’attenzione sulla serie di comportamenti e atteggiamenti che definiscono la mascolinità tossica.
Il concetto di virilità, come quello di mascolinità, sono costrutti sociali che delineano il genere maschile come atto alla forza, alla razionalità: l’uomo è colui che sa proteggere la propria donna, che sa risolvere problemi e gestire situazioni.

E, soprattutto, l’uomo non piange, non si mostra nella sua sensibilità e vulnerabilità (proprio perché non gli appartiene).
Anzi, se vi è rabbia o sofferenza è preferibile che esse siano espresse mediante la violenza o la chiusura in se stessi. Un uomo che piange non è uomo, bensì, una “femminuccia”.
In questo senso, quella della virilità si presenta come una prigione, che conduce gli uomini, socialmente pressati, a desiderare una vita sessuale molto attiva (altrimenti sei uno sfigato), a non saper affrontare un fallimento (se non con eccessi di violenza), e a reprimere tutta la loro sfera relazionale ed emotiva (perché troppo da “fichetta”).
In che senso “mascolinità tossica”?
Il termine “tossica” che affianca la parola “mascolinità”, esprime e rafforza il fatto che la mascolinità, in quanto costrutto sociale, è perniciosa non solo per gli uomini che si ritrovano repressi, insoddisfatti, proprio perché incapaci di inseguire una loro individualità, ma anche per la società stessa e per le donne che con loro, ahimè, si relazionano.
Tutta questa serie di comportamenti che abbiamo definito come “tossici”, sono gli stessi che ogni anno portano centinaia di donne ad essere oggetto di molestia, di violenza e di femminicidio. Quante storie di donne uccise solo per la gelosia dell’uomo che le stava affianco, abbiamo sentito? Innumerevoli.
Dato altrettanto all’armante è, inoltre, l’alto tasso di suicidi maschili. Quando non si è mai stati educati ad entrare in contatto con i propri sentimenti, emozioni, si è portati ad annientarli anche per mezzo di una scelta estrema.

Recente è poi l’esempio di Will Smith ai 94esimi Academy Awards, che sferrò un pugno a Chris Rock per aver fatto una “battuta” sulla rasata della moglie Jada Pinkett Smith.
O, ancora, Andrea Serraglia che palpeggiò la giornalista Greta Beccaglia come fosse un pezzo di carne, senza minimamente sapere cosa sia il consenso.
La tossicità è dunque insita nella violenza per la difesa della propria donna o per la sua morte e sofferenza (ma ciò che viene difeso, in realtà, è sempre l’onore del maschio), nella sessualizzazione arbitraria, nell’incapacità di chiedere consenso considerando la donna un prolungamento di se stesso.
Per una nuova mascolinità

È vero che non tutti gli uomini sono uguali, ma come le donne (per lo meno le femministe) devono fare i conti con le loro catene, così anche gli uomini.
È, dunque, responsabilità degli uomini farsi carico, per poi decostruire, gli stereotipi che in quanto maschio gli appartengono.
Non si tratta di dire che gli uomini, proprio in quanto uomini, sono tutti colpevoli, ma come ha scritto Michela Murgia in Stai zitta. E altre nove frasi che non vogliamo sentire più:
«La colpa è un carico morale esclusivamente personale […]. La responsabilità invece è un carico etico collettivo che ci riguarda tutti e tutte, perché le regole che seguiamo ogni giorno reggono la disuguaglianza che viviamo, anche se in misura diversa. La colpa ce l’hai o non ce l’hai. La responsabilità invece te l’assumi se pensi che quelle conseguenze ti riguardino e tu possa fare qualcosa per modificarle in meglio».
Autrice: Carolina Santini
Ho ventitré anni e sono studentessa del corso magistrale in Filosofia e Forme del Sapere, per il quale mi sono trasferita all’inizio di quest’anno accademico a Pisa. Vengo, infatti, da un piccolo paesino delle Marche in provincia di Urbino. Ed è proprio all’Ateneo di Urbino che ho intrapreso il mio percorso universitario, laureandomi in Scienze Umanistiche, curriculum Filosofico. Da poco in terra toscana, ho quindi deciso di portare la mia passione per la scrittura e il mio fervido spirito femminista, qui a RadioEco.