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RADIOFEMM – I FEMMINILI PROFESSIONALI: PERCHÉ FACCIAMO FATICA AD UTILIZZARLI?

Buongiorno a tuttǝ e bentornatǝ a RadioFemm! Questo lunedì parleremo di un argomento molto “croccante” che riguarda la nostra società, ossia la diffidenza presente sia negli uomini che nelle donne, nei confronti dei famigerati femminili professionali.

Premessa ai femminili professionali

Inizio con una breve pressa, che però ci consente di mettere in luce e chiarire uno dei fenomeni che stanno alla base della realtà sociale. Mi riferisco al forte binarismo di genere che delinea e caratterizza ogni ambito e livello della società e delle sue istituzioni. Si tratta del modello di tipo patriarcale che da secoli, per non dire da sempre, attribuisce agli uomini e alle donne (gli unici generi validi riconosciuti) ruoli, comportamenti e, in generale, modi d’essere, completamente opposti e agli antipodi.

Compito dell’uomo è quello della gestione della dimensione pubblica, la quale richiede capacità razionali, prontezza, forza e virtù notoriamente maschili. Ciò che è richiesto alla donna, riguarda, invece, la sfera privata e, quindi, possedere abilità relazionali, di cura della casa, dei figli e anche di se stessa. Questo perché oltre a occuparsi dell’educazione dǝ figlǝ, una donna che si rispetti deve possedere come sua priorità quella della bellezza e dell’estetica.

Perché “magistrato” sì, e “magistrata” no?

Femminili professionali
Credits: Rome Business School

Non ci stupiamo, dunque, se difronte alla parola “magistrata” storciamo il naso, mentre se parliamo di “infermiera” o “maestra” non ci stupiamo. Queste ultime professioni, infatti, appartengono a quella dimensione relazionale di cui sopra, e, pertanto, prettamente femminili. La funzione di “magistratǝ”, invece, si riferisce inevitabilmente alla sfera pubblica, all’organizzazione di un qualcosa che richiede salde competenze razionali. E, di conseguenza, si tratta di un ambito dominato dal genere maschile; come, del resto, tutti i ruoli apicali della nostra società.

Per capire bene di che cosa stiamo trattando, è interessante portare in campo l’esempio di “maestra”, che al maschile, “maestro”, acquisisce tutt’altro significato. Quando pensiamo alla maestra, ci viene in mente quella di scuola, e, quindi a una figura legata all’infanzia e all’educazione. Nel momento in cui decliniamo questa parola al maschile, essa prende immediatamente un’altra valenza: ciò a cui pensiamo è il maestro di vita, una persona saggia e con grande esperienza.

Linguaggio e realtà

È chiaro, dunque, come le parole utilizzate creano immaginari che poi vanno a costruire il reale. Il linguaggio è il frutto di un modo di porre la realtà, che, a sua volta, influisce sulla lingua parlata in una relazione circolare.

Fino a pochi decenni fa, le donne venivano escluse dalla sfera pubblica (tutt’oggi ne accusano i loro strascichi) e pertanto, parole come “ingegnera”, “architetta” o “ministra”, non venivano utilizzante in quanto non servivano a rappresentare e “chiamare” una determinata figura. Ricorrenti, invece, erano e sono: “infermiera”, “maestra” o “casalinga”.

Quello che sta accadendo nella nostra società, è un continuo annullarsi dei limiti che restringono le donne a tutto quell’insieme di elementi che le classificano come “femminili”. Perciò sta emergendo la forte necessità di nominare e saper nominare, le figure di donna all’interno di quelle mansioni tradizionalmente considerate “maschili”.

Femminili professionali
Credits: lo lotto ogni giorno

Come ha affermato nel 2013 Cecilia Robustelli in un Tema di discussione sul sito della Crusca: «Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana».

Il linguaggio si presenta come un mezzo per aiutare la donna nell’affermazione del suo ruolo professionale, all’interno della società. E non importa se dire o ascoltare “avvocata” o “casalingo” ci fa strano. Possiamo abituarci.

Tutto è mutamento

L’insieme delle parole che formano il linguaggio che quotidianamente utilizziamo, non è un sistema che dall’alto della decisione di un gruppo di persone o di linguisti, ci è stato imposto come valido e da seguire. La lingua viene costruita dalla comunità di parlanti: chi parla, crea il linguaggio. Tuttavia, anche la realtà e l’immagine che abbiamo di essa, influenza a sua volta il linguaggio. Si tratta di una relazione di forte potere, in quanto capace di plasmare i nostri orizzonti.

Le parole sono strumenti importantissimi di inclusività e relazione, elementi essenziali per la costruzione di sistemi. Il linguaggio plasma la realtà che a sua volta si adatta a quello. Diventa dunque necessario un intervento diretto della comunità di parlanti nel linguaggio. E una loro riflessione su di esso, la quale sia il più aperta possibile agli scenari futuri.

Femminili professionali
Credits: Il Mattino

La realtà così come la società, sono dimensioni costantemente in divenire: pensiamo, ad esempio, alla storia e il mutamento dell’essere umano all’interno di essa. Inevitabilmente, il linguaggio è uno strumento che si è sviluppato e adattato nel corso di un suo percorso, anch’esso in continuo mutamento. Fissarlo in un sistema dogmatico, altro non fa che rallentare e irrigidire il progredire della società in cui viviamo.

Iniziamo a bilanciare, meditare, pesare, le parole che utilizziamo quotidianamente. Cerchiamo di aumentare la consapevolezza del fluire della realtà e del linguaggio, e apriamo le nostre prospettive. Concludendo: le cose vanno chiamate con il loro nome, il quale non è fisso in un’unica determinazione ma sottoposto a variabilità. Una donna che vince le elezioni comunali di un determinato paese, si chiama: “sindaca”; il papà che amorevolmente si occupa dei suoi figlǝ, non è un “mammo”, ma è, appunto, un “papà”.


Autrice: Carolina Santini

Ho ventitré anni e sono studentessa del corso magistrale in Filosofia e Forme del Sapere, per il quale mi sono trasferita all’inizio di quest’anno accademico a Pisa. Vengo, infatti, da un piccolo paesino delle Marche in provincia di Urbino. Ed è proprio all’Ateneo di Urbino che ho intrapreso il mio percorso universitario, laureandomi in Scienze Umanistiche, curriculum Filosofico. Da poco in terra toscana, ho quindi deciso di portare la mia passione per la scrittura e il mio fervido spirito femminista, qui a RadioEco.

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