Nel dicembre del 2012 l’autrice femminista Chimamanda Ngozi Adichie, una delle figure fondamentali della cosiddetta «quarta ondata» del movimento femminista, tiene una conferenza al TEDxEuston Conference. Si tratta di un incontro annuale dedicato all’Africa in cui oratorǝ provenienti da varie discipline pronunciano brevi discorsi con l’obiettivo di scuotere e ispirare il pubblico. Questo suo intervento è stato riportato dall’autrice stessa in un piccolo saggio che è poi diventato uno dei testi fondamentali della teoria femminista: We Should All Be Feminists. Ed è proprio a partire dalle parole di Ngozi Adichie che si svilupperà una nostra riflessione sul perché dovremmo essere tuttǝ femministǝ.
Gli uomini governano il mondo

Uomini e donne sono esseri biologicamente diversi, ma tali diversità vengono sempre più accentuate nell’ambito sociale, per cui la maggior parte dei posti di potere e di prestigio sono occupati da uomini (bianchi, cis e etero). Gli uomini governano, nel vero senso della parola, il mondo. Grazie al processo evolutivo, tuttavia, la forza fisica non è più oggi un elemento determinante per la nostra sopravvivenza, ma le idee riguardanti il genere sembrano non essersi evolute con noi.
La persona qualificata per comandare non è più quella più forte, bensì quella più intelligente, perspicace, creativa, innovativa. Ed è evidente, dunque, che una donna oggi ha le stesse possibilità di un uomo di essere intelligente, innovativa e creativa, anche se, sono altrettanto evidenti svariati esempi di sessismo che vedono la donna come confinata nella dimensione relazionale ed esclusa da quella razionale.
Si tratta di una delle forme di discriminazione che sistematicamente avvengono sul piano sociale nei confronti delle donne, alle quali non è concessa la stessa possibilità di affermazione all’interno della società e della socialità, che è invece di facile accesso agli uomini. Questo breve saggio presentato da Ngozi Adichie mette a fuoco vari punti problematici del binarismo di genere e come si riflettono sulla società, giustificando l’esigenza di una aderenza collettiva alla prospettiva femminista, e che troviamo quindi funzionale alla discussione intorno ai limiti della struttura patriarcale che qui si vuole sollevare.
Essere “maschi”
«Facciamo un grande torto ai maschi educandoli come li educhiamo. Soffochiamo la loro umanità. Diamo della virilità una definizione molto ristretta. La virilità è una gabbia piccola e rigida dentro cui rinchiudiamo i maschi. Insegniamo loro ad avere paura della debolezza, della vulnerabilità. Insegniamo loro a mascherare chi sono davvero, perché devono essere, per usare una espressione nigeriana, “uomini duri”» scrive Ngozi Adichie.
La virilità e il suo contrapposto, la femminilità, sono dunque costrutti sociali: modelli fittizi, gabbie strette, dove non vi è posto per la nostra individualità. Si tratta di contenitori definitori e limitanti che fin da subito, attraverso quel fiocco azzurro o rosa che tanto piace appendere nelle porte delle case, ci classificano e ci affidano i nostri ruoli all’interno della società. È chiaro, dunque, che il forte binarismo di genere sia una questione legata alla dimensione culturale, e che il concetto di “virilità” non è altro che mascolinità tossica. Non si tratta di una espressione discriminante ma altro non è che un problema sociale.
Uno dei problemi maggiori che il sistema patriarcale ha, infatti, innescato negli uomini eterocis è quello di pensare di essere “il genere”. ’uomo è il fondamento per qualsiasi altra classificazione di corpi e diversità. Finché questa gerarchia prevede l’identificazione della donna come «secondo sesso», gli uomini continueranno a fare cameratismo ossia ad assumere comportamenti che li rassicurano l’un l’altro di essere uomini.
Come sostiene il filosofo femminista Lorenzo Gasparrini, «femminismo è anche dare agli uomini le parole e i simboli per comunicare e parlare della loro interiorità e del loro desiderio. […] Parlare di sé, condividere la propria interiorità, non è un tratto innatamente femminile come spesso viene detto. Piuttosto, sono gli uomini a essere educati a non esprimere i propri sentimenti, a non far vedere né dolore né gioia, a non mostrare debolezza, fragilità, difficoltà, malessere, perché questo significherebbe apparire non performanti, non efficaci, non uomini».
La cosa peggiore che, dunque, viene imposta al genere maschile è quella di fargli credere di dover “essere dei duri”, ma in questo modo, in realtà, li rendiamo estremamente fragili. E un torto altrettanto grande viene fatto anche al genere femminile, in quanto richiediamo loro di essere accondiscendenti nei loro confronti e a prendersi cura dell’ego fragile dei maschi.
Ma se riguarda tuttǝ, perché chiamarlo femminismo?

Il movimento femminista, anche se nasce come movimento di emancipazione delle donne, in particolare donne bianche, borghesi ed etero, non ha a che fare solo con esse. Oggi il femminismo vuole essere rigorosamente intersezionale, e rivolto a tutte le comunità marginalizzate in quanto tutte oppresse dallo stesso oppressore.
Allora se il femminismo riguarda i diritti umani, perché chiamarlo così? Come la stessa Ngozi Adichie afferma, parlare solo di diritti umani significa negare la specificità del problema di genere, «vorrebbe dire tacere che le donne sono state escluse per secoli. Vorrebbe dire negare che il problema di genere riguarda le donne, la condizione dell’essere umano donna, e non dell’essere umano in generale».
È un fatto, tuttavia, che molti uomini si sentono minacciati dall’idea di femminismo in quanto mette in discussione ciò che per loro è lo “stato naturale delle cose”, non rendendosi conto dei mille vantaggi che l’intera società potrebbe acquisire abbracciando questa scelta ideologica. Se l’altra metà della popolazione mondiale avesse le stesse possibilità di quelle previste per la metà privilegiata, quali sarebbero gli esiti? Lo scenario che ne emergerebbe è chiaramente quello della fioritura, del progresso e della realizzazione, la cui realizzazione prevede la necessità di una buona educazione: un mondo dove le persone vengono educate a partire dalle loro capacità e interessi piuttosto che dal loro genere.
La liberazione delle donne è, dunque, possibile solo attraverso la liberazione di tuttǝ e il guadagno che ne riceviamo è chiaramente collettivo. L’invito è dunque quello di decostruire i rigidi meccanismi di genere che da secoli soffocano le individualità, per fare spazio alla ricerca della propria identità che va ben al di là delle direttive prescritte dal binarismo maschio-femmina. Concludiamo quindi con le parole di Ngozi Adichie per cui «la mia definizione di “femminista” è questa: un uomo o una donna che dice sì, esiste un problema con il genere così come viene concepito oggi e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio. Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio».
Autrici: Livia Giorni e Carolina Santini

Mi chiamo Livia, ho diciannove anni e studio Scienze Politiche all’Università di Pisa. Da quando ho memoria sono appassionata di scrittura e in particolare di scrittura divulgativa: da qui il mio sogno di diventare giornalista. Il mio obiettivo più grande è infatti quello di far sentire le voci delle persone che hanno più bisogno di essere ascoltate.

Ho ventitré anni e sono studentessa del corso magistrale in Filosofia e Forme del Sapere, per il quale mi sono trasferita all’inizio di quest’anno accademico a Pisa. Vengo, infatti, da un piccolo paesino delle Marche in provincia di Urbino. Ed è proprio all’Ateneo di Urbino che ho intrapreso il mio percorso universitario, laureandomi in Scienze Umanistiche, curriculum Filosofico. Da poco in terra toscana, ho quindi deciso di portare la mia passione per la scrittura e il mio fervido spirito femminista, qui a RadioEco.