Sulla violenza e la salvezza: Nope di Jordan Peele

Al terzo film, Jordan Peele si spinge più in là di dove sia mai andato: fino al limite della sua ricerca sull’immagine e della sua teoria filmica. Con un doppio movimento: recandosi fino agli albori del cinema, vuole ridefinire gli orizzonti del cinema del futuro. E per questo, Nope è un punto di svolta dell’horror politico degli ultimi anni – ma d’altronde, l’horror è sempre stato politico

Dopo aver operato un disvelamento (della condizione socio-culturale dei neri statunitensi oggi, in Get Out) e fabbricato revisionismo cinematografico (le catene della solidarietà televisiva anni ’80 trasformate nelle catene della colpa, che labirinticamente cingevano tutta l’America di Us), in Nope Jordan Peele torna ancora più indietro. Ritorna, cioè, all’origine delle immagini in movimento e allo sfruttamento in esse connaturato.

La dinastia Haywood

In un ranch poco fuori Los Angeles, la famiglia Haywood addestra cavalli per produzioni cinematografiche e televisive, sostenendo di discendere dal primo ‘attore’ della storia del (pre)cinema, il fantino che nel 1878 veniva immortalato a cavallo da Muybridge nell’esperimento fotografico Sallie Gardner at a Gallop. Fantino che ovviamente nessuno ricorda (non solo perché era un fantino, ma perché nero), mentre Muybridge sì, lo ricordiamo.

Quando il patriarca degli Haywood, Otis, viene ucciso da una moneta cadutagli inspiegabilmente dal cielo nell’occhio, il figlio prende in mano le redini della compagnia e del ranch. Ma, insieme alla sorella, inizia a notare che proprio nel cielo sopra di loro c’è qualcosa di strano. Qualcosa da vedere, avvistare e scoprire. Qualcosa da addomesticare, come un animale feroce.

Se c’è qualcosa che non stupisce, guardando Nope e conoscendone il regista, è quanto esso sia un saggio visivo: non è un film, ma una visione del mondo. Per questo, l’ambizione di Peele, che è quella di strutturare un non-racconto che vive di rimandi e si propone come summa intertestuale del cinema di genere (horror, fantascientifico, western, ma anche una parodia di tutti questi generi) e dei suoi archetipi, sembra essere (fin troppo) abbagliante, a tal punto da accecare lo spettatore e fargli perdere il senso di ciò che sta guardando.
Il film risulta così fuori asse, la narrazione si disperde, vengono tralasciati i personaggi e le loro individualità così come le relazioni interpersonali (la fratellanza, il legame con il padre deceduto). 

La tirannia dello sguardo

Questo perché ciò che interessa a Jordan Peele, in Nope, è rifondare il cinema e l’immagine da cui esso è nato. Da Muybridge in poi, il cinema come dispositivo meccanico-materiale, ma anche come finestra metaforica sul mondo, ha sempre imposto uno sguardo, sfruttando come suo burattino o fantoccio una minoranza etnico-politica.

Lo sguardo fisso del potere, quello impersonale e sovra-personale della macchina da presa, è sempre stato, però, sin dal cinema delle origini, estensione dell’esperienza sensoriale umana.
L’architettura della tirannia dello sguardo, la violenza che vi si annida, risiedono –  ed è questo ciò che ci ricorda Jordan Peele – nella scopofilia del dispositivo quanto in quella dell’uomo, che anzi, attraverso il cinema (e poi la televisione) non è più stato responsabile della propria presenza corporea e del suo sguardo di fronte all’altro. E’ così che Peele frulla questa concezione fortemente critica del cinema, considerato come assoggettamento dell’altro, con un’antropologia del visuale, una psicologia di massa e un animalismo hard-core. 

Ad aprire il film è il set della sitcom Gordy’s Home, nel 1998, il giorno in cui lo scimpanzé protagonista attacca mortalmente alcuni gli attori (umani), compiendo una strage. In questo segmento che ha un valore puramente esplicativo e non narrativo, Peele ci restituisce parte della sua teoria filmica: per cui ci sono sempre degli oppressori, e degli oppressi; dalla parte di chi produce l’immagine e davanti ad essa. Ancora più radicale di Get Out, fino al midollo dell’indagine critica del testo filmico.

Perché lo scimpanzè impazzisce? Semplicemente perché scoppia un palloncino sul – set siamo così ingenui, Jordan? O perché, con un cappellino da festa di compleanno l’animale è stato reso vile spettacolo, davanti all’occhio della telecamera e agli occhi del pubblico?

Jordan Peele wondering

Nondimeno, Jordan Peele ci parla attraverso un altro movimento. E ancora una volta, un duplice movimento.

C’è qualcosa tra le nuvole sopra il ranch degli Haywood. Otis Jr. le scruta, ne diventa ossessionato, come se volesse domare un cavallo imbizzarrito ma fantasmatico e invisibile. Si rivolge insieme alla sorella Emerald a un negozio di tecnologia per l’installamento di videocamere di sorveglianza. Le fanno montare sulla villa che assomiglia così tanto al dipinto di Hopper House by the Railroad, ultra-citato nel cinema, da Hitchcock a Malick. 

Nope Jordan Peele
La House by the Railroad di Jordan Peele: con cose che le cadono sopra

Da questo punto in avanti, i due fratelli si rivelano interessati non solo a sapere cosa si nasconde sopra di loro, ma anche alla maniera migliore per riprenderlo, fotografarlo o riprodurlo. Fino allo showdown finale, in cui all’esigenza di sopravvivere si accompagnerà il desiderio di catturare la fantascienza dentro una singola, preziosa immagine. 

Quando per vari motivi i dispositivi tecnologici non potranno più essere utilizzati, quando lo sguardo (ancora lui!) diventerà un ostacolo, subentrerà la pellicola, e infine, quando la final girl tipica degli horror dovrà compiere l’azione salvifica, l’unica cosa che rimarrà sarà rifugiarsi in un parco a tema western e utilizzare un’attrazione per scattare una fotografia. 

Un movimento all’indietro, dal digitale all’analogico, dalle videocamere al parco di divertimento, fino all’inizio della fotografia impressa chimicamente, per ricercare l’immagine perfetta. 

Il cinema come macchina di potere e di violenza; il cinema come unica via di salvezza. Con un film sgangherato, ecco che in Nope Jordan Peele, come un confusionario cineasta saggista, arriva a chiedersi se la fabbrica industriale delle immagini in serie, quella che tanto amiamo, sia storicamente condizionata o sempre uguale a sé stessa, politica o individuale, mortale o eterna.

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Paolo Rissicini

Autore: Paolo Rissicini

Veterano di Civiltà e Forme del Sapere, funziona un po’ come diceva quel tale: “oggi il cretino è pieno di idee”. Speaker per RadioEco, è uno di Quei Bravi Ragazzi.

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