Questa settimana Fashion Riot si occupa di un tema politico-sociale decisamente importante e che questo blog non può sicuramente tralasciare: le pari opportunità lavorative fra donne e uomini nel mondo della moda.
Si tratta di un tema molto dibattuto da anni, sia nel campo della moda che in quello lavorativo in generale.
Già in occasione dell’8 marzo avevamo sottolineato come le donne, oltre ad altre discriminazioni e limitanti stereotipi, debbano scontrarsi con molti muri e mancanze di aiuti anche sul posto di lavoro.
Ciò che però mi spinge a scrivere di questo tema è la polemica sollevatasi intorno al discorso discutibile di Elisabetta Franchi.
Di quale discorso parliamo?
Sabato 7 maggio l’imprenditrice ed influencer a capo dell’omonimo brand di moda, Elisabetta Franchi, ha partecipato ad un evento organizzato dal quotidiano Il Foglio in collaborazione con il network di imprese di servizi professionali PricewaterhouseCooper Italia.
Franchi viene presentata al talk come “self-made woman dai cento milioni e passa di fatturato”. Già qua avremmo da ridire, ma andiamo con ordine e partiamo dalle parole di Franchi stessa.
Il tema del convegno è “Donne e moda: il barometro 2022” e in uno spazio a lei dedicato Franchi dialoga con la giornalista Fabiana Giacomotti, alla presenza anche di Elena Bonnetti, ministra delle Pari opportunità, e Lucia Borgonzoni, viceministra della cultura.
Qua il video completo dell’intervento:
In poco più di dieci minuti di celebrità, Franchi inizia a snocciolare una serie di opinioni a parer mio alquanto sconvolgenti, sicuramente anacronistiche e antifemministe, riproponendo una serie di stereotipi sulle donne che speravamo fossero superati, e invece…
Ecco i punti principali:
- Non è tutto oro quel che luccica e sicuramente non lo è il welfare state: lo stato non aiuta le donne che vogliono dedicarsi tanto alla famiglia ed alla crescita dei figli quanto al proprio lavoro. Ma, care mie donne, questo non deve essere un problema degli imprenditori! Dopo il film “Non è un paese per vecchi”, Franchi propone come sequel “Non è un’azienda per giovani donne” ammettendo di essersi spesso rivolta, per occupare le posizioni importanti dell’azienda, a uomini oppure donne “anta”, donne che hanno così avuto già la possibilità di fare figli, costruirsi una famiglia oppure divorziare.
- Franchi ha bisogno di donne che stiano al suo fianco 24 ore su 24, per cui non può certo assumere ragazze che vogliono far figli, andare in vacanza e dal parrucchiere: tutti desideri legittimi, sottolinea, ma lei sicuramente non vi assumerà se avete pretese così esose!
- Lei capisce le donne e le appoggia: sta nel DNA delle donne fare dei figli ed occuparsi di casa e famiglia. Alla fine della giornata, sono le donne ad occuparsi di tutto, accanto a uomini bambinoni: certo, potrebbero aiutare di più le donne, fare qualcosina, ma che vogliamo farci, è una questione di DNA, mica di costrutti sociali e problemi nell’educazione dei due sessi. Il classico “Boys will be boys”, peccato che io il testo della canzone di Dua Lipa me lo ricordassi diverso!
- Il mondo della moda è un mondo duro: bisogna essere leoni sempre sul pezzo, lavorare in gruppo e in presenza 24 ore su 24, essere disponibili a prendere un aereo in ogni momento con poco preavviso. E tutto questo, una donna che si prende due anni di congedo di maternità, lasciando vacante un ruolo chiave, non è certo sostenibile per un’azienda. Ma tranquille ragazze, basta essere come Franchi, wonder woman in incognito: due figli, partoriti con parto cesareo, che richiede 10 giorni di riposo post, ma lei ne ha fatti solo 2, e dopo subito alla scrivania con i punti che tirano, e un po’ di tempo nel weekend da dedicare ai pargoletti.
- Direi che anche sulla questione dei ritmi di lavoro estenuanti, del totale sacrificio della vita sociale, della reificazione dei dipendenti che diventano macchine e non persone pur di fatturare, il discorso va decisamente indietro invece che avanti. (“Seams like we only go backwards” dei Tame Impala is meanwhile playing in the background…)
Che cosa rispondere?
Dopo una serie di parolacce che spero sorgano spontanee, veniamo alla serietà.
Un discorso del genere è di una problematicità disarmante, a maggior ragione se a pronunciarlo è una donna, imprenditrice, 53 anni, che si presenta come a favore dei diritti delle donne e millanta l’80% di ruoli ricoperti da donne nella sua azienda.
Un’altra cosa non da poco sono le scuse arrivate il giorno dopo: non si è trattato di un discorso ad una cena fra amici, ma di un convengo, per il quale solitamente ci si prepara qualche giorno prima, si riflette sul tema del quale si andrà a parlare e si ricorda di ponderare bene le parole per esprime al meglio ciò che si pensa.
Perciò, scusarsi il giorno dopo con il trito e ritrito “Non intendevo dire quello, le mie parole sono state fraintese o ho sbagliato nel porle!” non dovrebbe far pena, ma far riflettere sul fatto che o le idee erano davvero quelle oppure non si è pensato bene prima di dirle, entrambe cose a mio parere gravi.
Un discorso che rispecchia una triste realtà
In parte Franchi ha ragione: in Italia, seppur il welfare state non sia proprio da buttare, ci troviamo ancora in una situazione di forte disparità fra donne e uomini nel lavoro, di opportunità negate alle donne che devono scegliere se diventare madri o lavoratrici, perché essere entrambe è un lusso, figurato ed economico, non incentivato.
Congedi di maternità e paternità troppo brevi e sussidi troppo bassi che mettono davanti alla scelta di lasciare il proprio lavoro se si deve poi spendere un intero stipendio in babysitter, soprattutto quando non si hanno nonni o altre persone vicine che possano aiutarci.
Ha ragione anche quando dice che il mondo della moda è duro: organizzare passerelle, lanci, gestire la comunicazione nell’azienda, favorire un ambiente armonico che stimoli benessere e creatività, prendere treni ed aerei ad ogni ora del giorno e della notte, preparare campagne.
Non è l’unico lavoro di questo tipo, ma di sicuro è molto pesante e mette davanti a dure scelte e sacrifici per la propria vita sociale fuori dall’ufficio.
Detto questo, affermare che lo stato non aiuti le donne, che non tutte le aziende possano permettersi di investire soldi per sopperire ai buchi del welfare, è un triste dato di fatto.
Tuttavia utilizzare questa realtà come scusa per continuare a tenere le donne in posizione subordinata rispetto agli uomini, impedendo loro a causa di un pregiudizio di perseguire una carriera per la quale hanno duramente studiato, è un altro fatto, vero altrettanto ma che dovrebbe essere combattuto, non perpetrato.
Qui, l’articolo che la giurista Vitalba Azzolini ha scritto per il quotidiano Domani, dove si vedono chiaramente gli errori, anche legali, che stanno dietro al discorso di Franchi.
Che cosa possiamo fare per invertire la rotta?
Dati alla mano (dati di Pwc, partner del Foglio nell’organizzare il convengo: discutibili gli ospiti, ma i numeri non mentono):
“Le donne coprono il 61,6 per cento dei dipendenti totali, il 48,6 per cento nel caso degli indipendenti: insomma, il Made in Italy è prevalentemente femminile, con un range di occupazione che, a seconda della categoria di prodotto, copre dal 55 al 66 per cento.
Ma, salendo di livello nei consigli di amministrazione italiani, l’universo femminile presente nelle principali multinazionali della moda raggiunge solo il 21 per cento, segnando un importante scarto culturale rispetto ai concorrenti.
Il gender gap sulle opportunità di accesso alle posizioni manageriali per le lavoratrici in Italia è stato rilevato anche da un recente studio di Kering, che evidenzia come solo il 25 per cento dei board manageriali dei principali marchi di lusso-moda italiani del gruppo sia composto da donne.”
Eppure esistono anche molti esempi che vanno in direzione ostinata e contraria!
Per prima cosa, alcune maison, come Versace, Prada, Dior, hanno a capo donne che, memori e allieve della loro esperienza di esclusione, stanno lavorando al fine di spianare la strada alle ragazze che voglio e vorranno lavorare con loro, combattendo gli ingiusti ostacoli che costellano il percorso delle donne che vogliono fare della moda il loro lavoro.
Qui un bell’articolo che intervista alcune donne a capo di case di moda e vogliono fare la differenza! In un articolo molto interessante che ha scritto Elisa Pervinca Bellini per Vogue Italia, molte voci si esprimono riguardo ad un possibile cambiamento:
Alessandra Bortolussi, Executive e Leadership Coach, si affianca a Roberto D’Incau, fondatore e CEO di Lang&Partners Younique Human Solutions, società di consulenza HR specializzata nel settore fashion, luxury e media e conosciuto per il suo impegno su tematiche come diversity e social impact.
Entrambi riconoscono che spesso nei colloqui si mette in discussione la professionalità di una donna che è anche madre, pensandola incapace di rispettare impegni e scadenze in quanto ha altri importanti impegni, e poi affermano:
“Penso che ci sia un errato pensiero nel dover spiegare o dimostrare (in sede di colloquio ad esempio, n.d.r.) di poter gestire una famiglia accanto al lavoro. Quello che, come persone, sia donne che uomini, dobbiamo dimostrare è di fare bene il nostro lavoro.
Perché questo viene solo richiesto dalle donne? Anche l’uomo passa notti insonni dopo la nascita di un bambino. Perché non dubitiamo che sia in grado di fare il suo lavoro il giorno dopo? E se un impiegato suona in una band e tutte le sere rientra alle 3 di mattina?
Dovremmo allora informarci in sede di colloquio anche che hobby hanno le persone, che non si sa mai… Si tratta di fiducia nelle capacità delle nostre persone e l’azienda, tramite i loro manager e la cultura aziendale, ha molto da poter fare per influenzare positivamente il senso di appartenenza e il senso di responsabilità dei propri dipendenti.”
Inoltre il “children penalty gap”, ovvero la disparità che si acuisce fra lavoratrici e lavoratori dopo la nascita di un figlio, non dovrebbe essere acuito dalle aziende, ma riassorbito dalla loro capacità di organizzare e prevenire un’assenza.
Forse quello che manca, allora, non è la professionalità delle dipendenti, ma l’incapacità delle aziende di seguire una società con sempre più donne emancipate e con voglia di fare nonostante la famiglia.
Perché queste domande non vengono fatte anche agli uomini?
Oltre ad essere una domanda legata a stereotipi e limitazione delle donne nello status chiave di “angeli del focolare”, non tiene conto di tantissimi altri fattori.
È una domanda sciocca, che limita la libertà di una persona di poter cambiare idea nel tempo, che non guarda alle capacità lavorative di chi si assume ma alla sua possibilità di soddisfare i ritmi militari del lavoro.
Inoltre è indelicata, soprattutto nei confronti di chi non può, per motivi di salute, avere figli o chi non desidera averne e deve continuamente sorbirsi la morale.
“E in sede di colloquio di lavoro, come affrontare il tema della maternità? Prima di tutto ritengo che un’azienda seria, con una cultura aziendale sana che prioritizza anche la Diversity & Inclusion, non si permetterebbe mai di fare una domanda relativa alle intenzioni di diventare madre oppure no. Se così invece fosse, consiglierei di non dare la propria disponibilità per il ruolo, perciò di non procedere con il colloquio. Perché di nuovo è segno di seri problemi dovuti ad una cultura aziendale non sana.
Sono dell’opinione che una donna non debba sentirsi in obbligo di condividere queste intenzioni in un colloquio di lavoro.
Così come non possiamo sapere se il giorno dopo l’assunzione contraiamo una seria malattia che ci porta via dal lavoro per mesi, così non possiamo sapere se e quando rimarremo incinta. Ritengo che un’azienda sana non dipenda dal singolo individuo ma da processi efficienti ed efficaci. Se e quando un individuo viene a mancare – per ferie, malattia, maternità, altro – il processo e le altre misure di supporto – succession planning, delegation, knowledge sharing, backup creation – devono poter coprire tranquillamente per alcuni mesi fino al rientro della persona”.
Barbara Bortolussi – Vogue

Autrice: Irene Lenzi
Classe 2001, studentessa di filosofia e novizia di Radio Eco. Appassionata di arte, cinema, musica, moda ma soprattutto libri. Logorroica ma simpatica, sfortunata in amore e con una gran voglia di scoprire e raccontare.Potete conoscerla meglio su Instagram: @irn.lnz