Everest: la discarica più in alto al mondo

Chi non ha mai sentito parlare dell’Everest? Di quanto sia difficile arrivare in cima? Di quanto freddo faccia?
Ma la vera domanda è: quanto ne sappiamo davvero della vetta più alta al mondo?

Dovremmo avere delle preoccupazioni di qualche tipo? Ebbene sì.

Si sa che all’ego umano non c’è limite, nemmeno in casi estremi come la scalata dell’Everest. Prima di parlare del punto di vista del gigante buono però poniamoci una domanda: quali sono le condizioni per eseguire la scalata?

La scalata

Il turismo è aumentato molto dopo le spedizioni commerciali organizzate: si paga una somma (circa $30.000) e si ha l’accesso ai campi base. Si deve affrontare un percorso di 40 giorni per abituare il corpo al clima (nel mese più caldo si arriva al massimo a -19°) e allenarlo per lo sforzo che dovrà compiere.

I campi base sono attrezzati di conseguenza: si hanno le tende con all’interno tutto il necessario, non può mancare il cibo, le bevande calde, ma anche diversi comfort esterni come tavolini, sedie, sdraio in cui i turisti possono anche rilassarsi.

Fonte: montagna.tv

L’ascesa dell’Everest è difficile da affrontare per il nostro organismo, soprattutto nella zona della morte, che inizia a circa 7.600-8.000 metri di altezza, dove il corpo umano inizia letteralmente a morire: si ha a disposizione un terzo dell’ossigeno, e di conseguenza il corpo non riesce ad acclimatarsi.

Un effetto fisiologico dato dalla carenza di ossigeno è l’ipossia da alta quota: la persona non si rende più conto delle sue condizioni, cambiano quindi le sue capacità percettive.

I primi tessuti che risentono della mancanza di ossigeno sono quelli nervosi, particolarmente il cervello, l’apparato visivo e quello uditivo. La persona colpita può anche perdere la capacità di distinguere il caldo e il freddo, cosa che accade solitamente sopra gli 8.000 metri.


L’inquinamento

Man mano che si sale il corpo fa sempre più fatica per via dell’aria rarefatta, quindi chi sta scalando deve liberarsi dei pesi in eccesso: attrezzature, zaini, bombole di ossigeno.

Arrivando al punto: queste cose verranno mai spostate da lì? Verranno mai smaltite come rifiuti quali sono? No. Per non parlare dei percorsi che vengono costruiti dagli Sherpa (gruppo etnico delle montagne nepalesi, guide e portatori di alta quota) per consentire l’ascesa. Si utilizzano scale di ogni genere, funi, moschettoni e altre attrezzature che si disperderanno nei metri di neve.

Fonte: nonsprecare.it

Oltre ai rifiuti elencati sopra ci sono anche i rifiuti organici degli alpinisti, che stanno finendo a valle, nell’acqua che per la sopravvivenza degli abitanti è fondamentale.

Nel 2019 i ricercatori che analizzano i campioni di neve e acque del National Geographic hanno riscontrato delle microplastiche a 8.440 metri. La cosa più preoccupante al momento è lo smaltimento dei rifiuti. Il governo nepalese ha deciso di imporre delle regole per gli scalatori: ogni persona deve riportare al campo base almeno otto chilogrammi di rifiuti, che è il peso stimato di quanto si disperde durante il tragitto.


Gli Sherpa

Oltre l’ambiente chi paga un grande prezzo di queste spedizioni sono gli Sherpa. Per loro l’Everest non è solo una vetta, anzi loro non la chiamano vetta ma Sagarmatha, ovvero dimora della Dea Madre Terra. È la rappresentazione fisica di una divinità, infatti la venerano ed è ritenuta sacra.

Prima del business, chiamiamolo così, non erano nemmeno interessati a scalarla, proprio per la sua natura. Il loro corpo, vivendo ad alta quota, è molto più abituato a quelle condizioni, che sono particolarmente estreme; lavorano quindi per le spedizioni.

Gli sherpa hanno scalato più volte di chiunque altro l’Everest, ma non gli viene dato nessun riconoscimento. Fanno si che la mania dei turisti venga soddisfatta, danno molto aiuto, sono guide, e devono anche pulire le tonnellate di rifiuti che gli scalatori lasciano durante l’ascesa.

Tutto ciò è davvero ingiusto, ma quale potrebbe essere una soluzione? Quanto vale davvero l’ego umano rispetto alla natura, al mondo che da sempre ci ospita?

Fonte: montagna.tv

È importante ricordare alcuni Sherpa:

Kami Rita, 24 volte sull’Everest

Babu Chiri, morto nel 2001 a seguito di una caduta, salì sulla cima anche due volte in due settimane e detenne il record del tempo di ascesa in 16 ore e 56 minuti

Karma Gyalzen, morto nel 2003 per mal di montagna (carenza di ossigeno)

18 aprile 2014, mentre fissavano delle corde lungo il tragitto, una valanga uccise 16 Sherpa

La valanga causata dal terremoto in Nepal nell’aprile 2015 ha tolto la vita a 6 Sherpa

Jangbu Sherpa, morto nel 2015 a Kathmandu a seguito delle lesioni subite durante la valanga successiva al terremoto


Una testimonianza

L’Everest conta in totale più di 300 persone (Sherpa e alpinisti) morte nel tentativo di ascesa. Nel 1998 la statunitense Francys Arsentiev e suo marito Sergei Arsentiev durante la discesa, esausti e confusi si separarono senza nemmeno accorgersene. Lui arrivò alla tenda ad 8.200 metri la mattina dopo e solo lì si accorse che la moglie non c’era. Lei era a 8.600 metri, viva ma confusa, incapace di muoversi, con gravi congelamenti. Il marito riuscì comunque a raggiungerla e passò accanto alla moglie.

La mattina dopo Sergei era sparito, caduto. Trovarono il corpo un anno dopo, sull’orlo dell’abisso della parete ovest, dell’eroe che fino alla fine tentò di salvare Francys. Lei morì poco dopo, ma il corpo non poteva essere spostato in quanto in un posto pericoloso per chi stava tentando l’impresa.

Il corpo congelato di Francys rimase vicino alla via principale della vetta per nove anni finché nel 2007 l’alpinista Ian Woodall guidò una spedizione per spostare il corpo dietro una sporgenza fuori dalla vista degli escursionisti. In seguito Woodall dichiarò:

“È stata dura farlo con gli occhi pieni di lacrime, mi ero reso conto che alla fine le montagne sono solo roccia e neve e che bisogna sempre chiedersi se ne vale la pena scalarle“.

(dati di riferimento da Wikipedia)

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Erica: studentessa di scienze della comunicazione, appassionata di musica e arte e innamorata della natura. Convinta che si possa cambiare il mondo piantando tanti semi di avocado, coccolando gli animali e facendo la raccolta differenziata.
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