Nell’ormai lontano settembre 2020, Elio Germano lesse i versi del XXXIII canto del Paradiso, a Ravenna, in apertura delle celebrazioni per il 700º anniversario della morte di Dante Alighieri. Un anno e mezzo dopo, gli stessi magnifici versi che celebrano “l’amor che move il sole e l’altre stelle” tornano al centro di un nuovo lavoro del pluripremiato attore romano, commissionato da Ravenna Festival: Paradiso XXXIII, andato in scena dal 18 al 19 Febbraio al Teatro Era di Pontedera.

Complice di Germano è Teho Teardo, che dalle terzine dantesche fa emergere musiche inaudite, mentre la complessa dimensione esistenziale e letteraria di Dante incontra le immagini visionarie di Simone Ferrari e Lulu Helbaek, creativi di strepitosa audacia visiva, famosi nel mondo per le loro collaborazioni con gruppi come il Cirque du Soleil e le loro sperimentazioni tra teatro, nuove tecnologie, videoarte e scenografie dal forte impatto visivo.
Elio Germano, assieme a Laura Bisceglia e Ambra Chiara Michelangeli, rispettivamente al violoncello e alla viola, con il disegno luci di Pasquale Mari, contributi video firmati da Sergio Pappalettera e Marino Capitanio e il design delle scene a cura di Matteo Oioli, fa diventare spettacolo l’ultima parte della terza cantica, quella in cui Dante, al termine del suo viaggio straordinario, alzando gli occhi al cielo tenta di dire l’indicibile, l’ineffabile, trovandosi di fronte al più grande paradosso di ogni poeta.
L’evento è una coproduzione con Pierfrancesco Pisani per Infinito Produzioni e una cordata di teatri – la Fondazione Teatro della Toscana, il Franco Parenti di Milano, l’Abbado di Ferrara e il Galli di Rimini.
Il XXXIII del Paradiso rappresenta un viaggio in sé stessi, è simbolico dell’esistenza, racconta l’arte in generale e i suoi limiti. Obiettivo di Germano, come dichiara lo stesso attore vincitore di tre premi David, è quello di rappresentare l’impossibile, dispiegando, cioè provando ad eliminare le pieghe che rendono difficile al lettore di entrare fino in fondo nella magnificenza di questo canto. Dispiegare senza però fornire parafrasi superflue. Obiettivo piuttosto ambizioso quello di Germano e Teardo. Saranno riusciti a trasmettere fino in fondo il loro messaggio? Scopriamolo.
L’articolo è suddiviso in:
- Il corpo come limite all’elevazione
- Cosa non ci ha convinto in Paradiso XXXIII
- La drammaturgia di Elio Germano
- La banalità della rappresentazione
- Commento alla musica
- Conclusioni Amare
Il corpo come limite all’elevazione
Il XXXIII canto del Paradiso che è anche l’ultimo della Divina Commedia si apre con la preghiera di San Bernardo alla Vergine Maria, colei che dona la vita e che ha permesso l’incarnazione di Cristo.
Particolarità dell’ultimo canto della terza Cantica della commedia è l’impossibilità di Dante, ormai giunto alla fine del proprio viaggio, di esprimere a parole la magnificenza del divino. Man mano che Dante si avvicina a Dio, il corpo è vissuto via via sempre più come fardello, limite all’elevazione, importuno legaccio alla vita materiale, nonché impaccio alla trasfusione più completa nella luce divina finalmente raggiunta e goduta. Luce divina che pur essendo un’esperienza del tutto sensibile e sensoriale, riesce a travalicare il senso meramente umano della divinità.
È proprio attraverso i sensi e l’esperienza visiva e uditiva che Elio Germano tenta di stimolare il proprio pubblico, attraverso le videoproiezioni di Sergio Pappalettera e Marino Capitanio e il disegno luci di Pasquale Mari. Il tutto in una scena spoglia, al centro della quale pende una sorta di largo cilindro di tulle, che andrà poco per volta dischiudendosi, per mostrarne l’interno, coincidente col fondo del teatro, dove avranno luogo le proiezioni.
Il progetto è quanto mai ambizioso e visionario, a cavallo tra l’antico e il moderno, tra il bello e il kitsch, i due artisti infatti salgono su un palco vuoto per dare vita ad un’ora di spettacolo che mescola le terzine dantesche alla musica elettronica con commistioni classicheggianti di Teardo e alle luci di Pasquale Mari.
L’effetto è straniante e un po’ stordente, ma di certo non lascia impassibile lo spettatore che si trova catapultato in un mondo surreale e a tratti fuori dal tempo e dallo spazio.
Cosa non ci ha convinto in Paradiso XXXIII
C’è qualcosa però nello spettacolo di Theo Teardo ed Elio Germano che non riesce a convincere fino in fondo. I momenti più tesi e intensi della visione sfumano in modo piuttosto sbrigativo nelle sezioni “metapoetiche”. I momenti in cui l’esperienza estatica non è espressa dalle parole di Dante, sapientemente recitate da Germano ma, solamente affidate alla musica di Teardo, e al movimento del protagonista nel retropalco (diviso dalla scena da una parete a riquadri trasparenti, oltre la quale ha origine il fascio luminoso) risultano asettici, eccessivamente artificiosi e poco credibili.
Discutibile anche l’abbigliamento dell’attore che, a primo impatto, sembrerebbe un travestimento monacale; ampie maniche, gesto dei palmi al cielo, persino un suono di campana percossa dal vivo. Tutti elementi che, piuttosto che avvicinare lo spettatore, non fanno altro che creare una distanza tra l’artista e il pubblico che alla fine risulta spaesato e confuso.
La Drammaturgia di Elio Germano
Tra l’opzione di una pura lettura dei versi danteschi, basata sulla resa sonora o sulla mera illustrazione, e una riscrittura scenica che usi il poema come puro canovaccio, tra questi due estremi di costruzione e non-costruzione, Germano sceglie una via intermedia: la sua. Attenta e analitica, quella da lui realizzata non è una drammaturgia applicata sui versi di Dante, ma rintracciata in essi. Essa, cioè, attraverso lo svolgersi di quella narrazione poetica, costruisce per quei versi una vita rappresentativa.
Di questa vita scenica nascosta non sfuggono a Germano i dettagli, come la diversa qualità (e non solo intensità) dei successivi momenti di quella rivelazione della visione. È però proprio qui, precisamente nel convertirsi progressivo di un’astrazione in immagine, che il testo scenico giunge a cozzare con il testo poetico, rischiando il cortocircuito del kitsch.

La Banalità della rappresentazione
È fatale che, con il crescere del grado di rappresentabilità di un dato espresso verbalmente, così cresca anche la banalità della rappresentazione, che se ne fa mero doppio, diventando inessenziale. Eppure, questa dettagliata scrittura drammaturgica dei versi danteschi, guidata da un sincero afflato comunicativo e da un notevole grado di approfondimento, rendono lo spettacolo coinvolgente, e ne fanno, come dichiara Germano, un “dispiegamento” del testo, una sua cordiale, riuscita, talvolta anch’essa poetica parafrasi scenica. Ma il problema, a quanto pare, sta proprio qui. Nel fatto che lo spettacolo tenda a dimostrarsi una mera parafrasi visiva del canto, piuttosto che una personale, rappresentazione, finendo per cadere nel banalismo.
Su una sola cosa non v’è dubbio: sul talento di Germano che ha un modo tutto suo di recitare i versi del canto finale del Paradiso. Estatico, sospeso, ma in fondo privo d’ogni retorica. Si avverte benissimo quanto il suo Dante, giunto alla conclusione del suo cammino, sia sbigottito ed abbagliato di fronte alla visione dell’Altissimo Creatore. Germano non recita, ma rivela: i silenzi e le pause sopravanzano le parole, i respiri affannosi ben rendono quel senso di attonito stupore che il Poeta prova una volta messo di fronte all’Ineffabile.
Lontano dalle letture di celebri predecessori come Roberto Benigni, da un’aurea intimista e sofferta al canto che ha come vera protagonista non la visione paradisiaca del Divino quanto l’impossibilità a comunicare a parole ciò che solo al Poeta è stato concesso di vivere. Da qui una scansione delle parole lenta e sussurrata, singhiozzante e a tratti commovente che però viene in certi momenti sovrastata dalle musiche di Teardo, che peccano di eccessiva modernità.
Commento alla musica
Paradiso XXXIII sperimenta tanto sulla scena quanto sul suono, assumendo l’identità di uno spettacolo di espressione trasversale sui vari fronti sensoriali. Le musiche del compositore friulano Theo Teardo sono ideate per assumere una condizione di centralità tanto quanto i versi recitati da Elio Germano nonché le videoproiezioni di Sergio Pappalettera e Marino Capitanio ed il disegno luci di Pasquale Mari.

L’aspirare della messa in scena di essere un’esperienza immersiva grazie alla sua identità grezza, sembra giungere all’obiettivo, ma non fino in fondo. Sono proprio le musiche ad inciampare quasi al punto di arrivo della corsa. L’intento di Teardo di modernizzare la composizione con l’ausilio di suoni elettronici in compresenza ad un duo viola-violoncello (Laura Bisceglia e Ambra Chiara Michelangeli) sarebbe stato potenzialmente geniale se non fosse per un qualcosa che stona e non permettere di fondere insieme tutti i vari pezzi che rendono lo spettacolo tale. Si tratta di un senso di scollegamento tra il fronte del suono e quello dei versi danteschi e della parte visiva, che restituisce una sensazione di incompletezza e incoerenza, come se venissero a mancare dei pezzi di congiunzione fondamentali.
È forse la prima frazione dello spettacolo, quella della preghiera di San Bernardo alla Vergine, ad essere la più difficile da digerire in quanto vede protagonista delle composizioni fatte di suoni crudi, a tratti stridenti, che non trovano molti punti in comune con il passo del canto. Sicuramente l’intento era quello di trasmettere il fastidio che Dante comunica nel sentire il corpo ormai come un fardello, qualcosa che lo vincola nell’ascensione, ma il risultato Teardo lo raggiunge a metà poiché per quanto il disagio venga suscitato, questo è tanto diretto al pezzo in sé e non all’immedesimazione con Dante(Elio Germano).
Nelle parti successive questa percezione di defusione viene un po’ meno. Le musiche assumono una caratterizzazione più classica e armonica in linea con la pace che Dante giunge a provare nel vedere Dio e la sua essenza nucleare in cui racchiude ed è allo stesso tempo tutte le cose. Gli archi in questo passo hanno un ruolo centrale e predominante, prendono spazio all’elettronica pura sentita in precedenza e questo risulta sì più coerente, ma purtroppo non abbastanza da essere vincente. Forse per la forte antitesi che emerge inevitabilmente tra le varie parti della composizione, non è possibile spogliarsi del disorientamento che un po’ il risultato della riuscita musicale porta con sé.
Conclusioni Amare
Se l’interpretazione magistrale di Germano e il disegno luci di Pasquale Mari, sembrano comunque armonizzarsi col testo dantesco, la musica di Teardo appare ben lontana dalla trascendenza che – laddove le parole non riescono ad arrivare – si manifesta nella Commedia proprio nella musica e nei canti celestiali descritti da Dante nel suo Paradiso.
L’esperimento è perciò da apprezzare nella sua audacia e innovazione, tuttavia tradisce un desiderio di modernità anacronistica che non rende giustizia a un testo che è già moderno e imponente di suo e che non ha bisogno di forzature temporali per riuscire a parlare ancora, dopo 700 anni, a tutti noi.

Autore: Mariaconsuelo Tiralongo
Classe 2000, figlia del Mar Jonio e dei Monti Iblei. Da sempre appassionata di letteratura e scrittura creativa, cura con passione il proprio blog letterario , discute di libri e Mental Health su @papergirlinapapert0wn e studia Informatica Umanistica all’UniPi. Fa parte di Radio Eco dal 2019, dal 2020 contribuisce alla realizzazione di articoli e contenuti vari per la rubrica letteraria di RadioEco: Eco di Libri e dal 2021 è editor dell’area Blog. La trovate su @mylifeas__c

Autore: Matilde Loni
Nata accanto alla torre pendente nel 1997, Matilde da ex pallavolista approda alla tastiera del pc per scrivere della sua grande passione: l’arte in tutte le sue declinazioni. Studentessa di Psicologia Clinica e novizia di RadioEco, puoi trovarla su Instagram come @matildeloni_