Vittime del fascino del fast fashion, almeno una volta, lo siamo stati tutti. Io di certo, perché mi permetteva di ottenere con la mia misera paghetta un guardaroba sempre nuovo, condizione tanto voluta quanto necessaria perchè tutto ciò che compravo da H&M, Zara o Primark durava al massimo una stagione (possiamo parlare di obsolescenza programmata?). E in realtà i miei acquisti insostenibili non si fermavano ai vestiti, ma comprendevano tutta una serie di cavolate fra Tiger e AliExpress, che molto spesso mi spingevano all’acquisto grazie a un mix perfetto di economicità, reale necessità e momentanea gratificazione. Fra questi acquisti potremmo mettere anche i voli low-cost di RyanAir, promessa di felicità ed esoticità (per quanto possiamo considerare esotica una normale metropoli tedesca che prima che la compagnia aerea irlandese ci mettesse il volo a tre euro non si filava nessuno, in cui passiamo due notti senza davvero renderci conto di dove siamo e cosa stiamo facendo) a basso impatto sul mio portafoglio. Ma l’impatto sul pianeta, di tutto questo consumismo assolutamente non necessario, non è per niente basso.
Fast-fashion: settore dell’industria dell’abbigliamento che produce collezioni ispirate all’alta moda ma messe in vendita a prezzi contenuti e rinnovate in tempi brevissimi.
Il trigger per me sono state le microfibre plastiche rilasciate dai tessuti sintetici di cui i nostri vestiti sono fatti, che finiscono in mare quando li laviamo e impattano gli organismi qui presenti; e in generale il comprendere che il materiale è tossico per molti organismi, non riciclabile, e prodotto con metodi inquinanti. L’industria tessile è responsabile di circa il 10% delle emissioni di gas serra, e consuma più energia del trasporto aereo e di quello marittimo messi insieme (rapporto ONU) . E di questi consumi, solo una parte va a produrre qualcosa che viene effettivamente utilizzato: infatti il 30% degli abiti rimane inutilizzato negli armadi e tutto ciò che rimane invenduto viene bruciato. Praticamente, si contribuisce in modo imponente al cambiamento climatico per produrre rifiuti inquinanti.

Washing Machine photo by Ekaterina Belinskaya from Pexels
Ma non è solo l’ambiente a pagare il prezzo per noi: il nostro risparmio deriva direttamente dallo sfruttamento di lavoratrici e lavoratori delle industrie tessili. Lo scandalo di Rana Plaza del 2013 ha mostrato come le catene di vestiti coinvolte (H&M, Benetton) non assicurino i diritti umani delle persone che impiegano. L’edificio coinvolto dal crollo aveva delle crepe che erano state segnalate in precedenza, di conseguenza era stato sgomberato da tutti, tranne dai lavoratori nei laboratori tessili che erano stati fatti tornare per continuare la produzione. Questo crollo ha comportato 1129 vittime e 2515 feriti ed è, ovviamente, solo la punta dell’iceberg di condizioni di lavoro precarie e paghe inadeguate. Insomma, il fast fashion non mi sembra altro che una riproposizione moderna e delocalizzata della commovente scena di Furore di John Steinbeck in cui i lavoratori muoiono di fame e i proprietari bruciano la frutta.
Con la pandemia e la chiusura dei negozi, le aziende di fast fashion hanno subito enormi perdite, e hanno deciso di cancellare ordini, non pagare i fornitori, e quindi, i lavoratori. Online si trovano petizioni per chiedere a queste aziende di pagare i dipendenti, che già prima erano in condizioni di estrema povertà. In Italia se ne occupa Cambia MODA di Mani Tese, su Instagram la campagna #PayUp, ed è assolutamente necessario fare questo tipo di pressioni oltre che boicottare questi marchi, se non la moda tutta, perché, lo abbiamo detto e ridetto, black lives matter. Ed è quindi anche includendo il discorso del fast fashion che possiamo rendere l‘ambientalismo, ma anche il femminismo, realmente intersezionali.

Che fare quindi? Anche materiali biodegradabili come cotone e lana nascondono costi ambientali (legati all’uso di pesticidi e all’allevamento) e sfruttamento dei lavoratori. Ci sono comunque alcuni marchi, ma soprattutto piccole produzioni indipendenti, che garantiscono equità e rispetto dell’ambiente, e materiali come bamboo o canapa. Sono a questi a cui mi rivolgo quando ho bisogno di qualcosa di assolutamente necessario che non riesco a trovare altrimenti. Anche se la cosa non mi piace. Perché abbiamo sfruttato le risorse del nostro pianeta abbastanza, e non ha senso continuare a produrre per vendere, anche se in modo “verde”. Quindi, quando mi serve qualcosa, la prima cosa è chiedermi se ne ho veramente bisogno. Poi, se la risposta sì, lo o lo chiedo ad amici, parenti, coinquiline. E se quello che mi serve si è semplicemente rotto, provo prima di tutto a riaggiustarlo. Infine, se lo devo proprio acquistare, mi metto alla sua ricerca nei negozi dell’usato. In questa marea di riaperture incerte, mi ha reso felice vedere le solite cianfrusaglie appese fuori dai negozietti vintage pisani a cui sono affezionata, e che ho pubblicizzato fino alla noia a tutti i miei amici. Molte le opzioni in giro per l’Italia, fisiche ed online: consigliati Shpock per qualsiasi cosa, Depop se non volete rinunciare allo stile, ma anche Armadio Verde e la catena dei Mercatopoli. Meglio ancora Humana Vintage. Sempre acquistando in seguito ad una reale necessità, con la volontà di prendersi cura dell’oggetto acquistato. E potete anche vendere, per guadagnare qualcosina, ma soprattutto non sprecare quello che non usate più.
Non ho nessuna pretesa di pensare che sto salvando il pianeta elemosinando un frullatore ai vicini, né sono in grado di concepire da sola come andrebbe ripensato il nostro stile di vita per essere davvero completamente sostenibile. Semplicemente, rendendomi conto che quello che compravo non mi serviva, e che il mio comportamento era una delle minacce principali per quegli organismi che studio per proteggere, nonchè per la dignità di vita di moltissime persone, non ho potuto fare altro che interromperlo. E penso che le piccole cose che persone e movimenti continuano a fare, riflettano il desiderio di una società in cui siano possibili condivisione, rispetto dei diritti umani e riconoscimento della natura come fonte primaria di tutto ciò che usiamo. Si parla di transizione economica, di passare dal fossile al rinnovabile e tanto altro: non sono la sola a desiderare che anche i posti di lavoro dietro fast fashion e consumismo trovino spazio in attività basate sul riutilizzo, il riuso e la sostenibilità.

Autrice Alessandra Pafumi
Studentessa di biologia marina nata nel 1997, è a casa solo quando è quasi a casa. Gioca a fare la blogger e la speaker per RadioEco dal 2019. Gestisce Disconnected con Giulia Greco.
Pingback: Fenomeno Bootleg: il merchandise fanmade - RadioEco