L’uomo è un animale sociale. È così che Aristotele definì l’essere umano, in quanto capace di unirsi in gruppo e costituire una società, ovvero, secondo la definizione, un insieme organizzato di individui. Ma cosa significa realmente società e cosa, nello specifico, essere un individuo all’interno di essa, cioè essere un animale sociale?
Se pensiamo alle società antiche, come quella greca o quella romana, che già di per sé differiscono l’un dall’altra, ci risulta assai difficile paragonarle alla nostra dell’era digitale. Ogni epoca presenta una società diversa, ma anche ogni territorio, perché se ci spostiamo di Paese in Paese possiamo notare diversità enormi nel modo di pensare e di rapportarsi con gli altri, rispetto alla nostra società italiana. Basti pensare alle culture del contatto e del non-contatto: per noi italiani è naturale toccare e interagire con gli sconosciuti, ma per un norvegese questo potrebbe risultare fastidioso, persino se sei suo parente.
Ogni società, però, è composta da individui, che, come detto prima, si organizzano e si danno delle regole, le quali devono essere rispettate al fine di sentirsi membro della stessa comunità che le ha decise.
Cosa succede, però, quando un individuo non si sente di appartenere alla propria società? Quando si rende conto che la propria identità, quella vera, quella profonda non è la stessa che ha quando è seduto al bar con gli amici o quella che ha con il partner o ancora quella che tiene in famiglia o a lavoro? Rimane ancora un animale sociale?
Pirandello dopo queste affermazioni esclamerebbe a gran voce, in uno dei suoi spettacoli teatrali, “Uno, nessuno, centomila!” , e forse la vita per molti appare proprio come uno spettacolo, in cui si indossano mille maschere e, spesso, si perde l’identità di chi sta sotto quei costumi.

Un caso eclatante di perdita d’identità ed inclusione sociale viene proprio dalla mia generazione, i cosiddetti nativi digitali. Il web, ed in particolare i social network, hanno permesso a molti di essere qualcuno diverso da quello che sono nella realtà, quella vera e non virtuale. Così chi si sentiva bullizzato per l’aspetto estetico, chi voleva essere diverso da quello che già era, chi voleva esprimere il proprio io più profondo di cui si vergognava, grazie al web e all’anonimato, poteva costruire un’immagine di sé totalmente diversa, quella che avrebbe sempre voluto e alla quale si sentiva di appartenere.
Fino a qui, tutto ciò potrebbe sembrare fantastico: ridare speranza a chi di quei piccoli difetti o di quegli interessi strani se ne era fatto un problema talmente rilevante da nasconderli agli occhi di tutti.
Il mondo però non è manicheo, non è bianco o nero, bello o brutto, ma esistono miriadi di sfumature di grigio, così come l’identità che ci costruiamo, formata da miriadi di facce diverse che assumiamo nei mille contesti della vita. Ed infatti, costruirsi un’altra identità online non è sempre fantastico, anzi molto spesso porta all’alienazione del sé, ad identificarsi totalmente con quell’io digitale che non è quello in carne ed ossa, quello che puoi toccare, vivere e sentire.
Si inizia così a vivere di numeri: quanti like, quanti commenti, quanti post e quante chat aperte contemporaneamente. Ma nessun like e nessun commento è veramente rilevante, è solo un’unità che si aggiunge al mucchio e il mucchio deve essere grande se vuoi essere qualcuno online. Neanche le chat riportano veramente l’interazione fra persone, sono vuote, piene di gif ed emoticon che sostituiscono i pensieri e le emozioni. Non sappiamo scrivere, non sappiamo esprimerci realmente se non attraverso un contenuto già prodotto da qualcun altro.
Qual è la tua originalità? Cos’è che è tuo? Chi sei tu?
Si perde il senso della realtà, degli altri e sopratutto della società. La società diventa quella online, che viene chiamata in gergo community. È lì il tuo mondo e da lì non vuoi uscirne. I casi estremi sono i ragazzi affetti dalla sindrome di hikikomori, talmente estraniati dalla società di appartenenza che la rifiutano e si rinchiudono in casa, negando ogni contatto con l’esterno e perdendo completamente il sé originario, quello dell’animale sociale che vive con altri individui.
Qual è a quel punto la sua vera identità? Quella del ragazzo che vive in camera sua lontano dagli occhi di tutti, schivo e pauroso del mondo o quella del ragazzo digitale solare, divertente e interessato a dibattere/chattare con la sua community? Esiste veramente una sola identità dell’io o, come diceva Pirandello, ne esistono una, nessuna e centomila? Veramente le nostre radici sono così forti da ricordare alla nostra identità da dove veniamo e chi siamo?
Basta nascere in una società per sentirsi parte di essa? Basta essere nato in Italia per sentirsi italiano?
L’ultima domanda di riflessione tocca un tema caldo, quello del razzismo e non è un caso, perché anche quando discriminiamo l’altro, stiamo voltando le spalle ad una delle nostre identità, quella del genere umano.
Infatti, un altro esempio di perdita d’identità è ancora più vicino a noi e se ne sta parlando proprio in queste ultime settimane: emergenza Corona Virus. Di fronte alla paura di morire, anche chi si credeva il più buono e caritatevole, discrimina il malato, discrimina il cinese, il nordico, perché lo vede responsabile di qualcosa, di cui nessuno ha la colpa.

L’identità ci direbbe, in questo caso, che la nostra società, quella macro, è formata da uomini e, non esistono differenze tra gli uomini appartenendo tutti alla stessa specie, eppure queste vengono fatte lo stesso, ogni giorno.
Dal colore della pelle, alla forma degli occhi, ai vestiti che indossi, all’auto che guidi, al tuo orientamento sessuale, ai tuoi gusti musicali… Niente viene lasciato in disparte nel mondo della discriminazione, tutto diventa oggetto di diversità.
Improvvisamente l’identità che ti collega alla società è persa. Ci si dimentica che siamo tutti umani e che apparteniamo alla stessa specie. Di fronte alla paura, la nostra identità cambia e diventiamo qualcosa che non ci saremmo mai aspettati, rinnegando la nostra società e comportandoci con pure istinto animale, non rispettando i principi e valori su cui la stessa società è fondata.
Vittorio Arrigoni, reporter italiano, era solito concludere ogni suo articolo con l’adagio “Restiamo umani“, perché forse là, sulla striscia di Gaza, anche lui si era accorto della perdita d’identità di fronte a tanta violenza che l’uomo ha sullo stesso uomo e voleva invitare a ricordare chi siamo e a chi apparteniamo: la razza UMANA.
Forse sì, caro Aristotele, l’uomo è un animale sociale, ma non è fedele quanto gli animali alla propria società di appartenenza. L’uomo è nato libero di scegliere chi essere e a chi appartenere e, forse, la sua libertà è il suo più grande pregio e il suo più grande difetto.

Autore: Sara Binelli
Nonostante si presenti sempre con addosso una mantella di cinismo elegante, sotto è vestita da inguaribile romantica. Ama la scrittura e le piace far ridere gli altri.
Segretario d’Associazione (part-time) e segretaria del Presidente (full-time), è Responsabile dell’Area News e del Social Team di Radioeco, di cui ne fa parte dal 2017.