La cultura digitale e l’influenza sulla nostra vita è il filo conduttore dell’Internet Festival e nucleo dell’evento “Ontologia, etica del digitale ed etica dell’immagine virtuale tra imitazione e realtà” organizzato dall’ordine dei giornalisti della Toscana, tenutosi ieri presso il Centro Congressi le Benedettine.
L’influenza del digitale nella nostra quotidianità è sotto gli occhi di tutti, oltre che sotto i polpastrelli, talmente tanto da aver portato al cambiamento di nozioni e definizioni che ci accompagnano fin dall’inizio dei tempi. È questo il caso del concetto di immagine, nocciolo del dibattito che ha coinvolto Adriano Fabris, professore di Etica della comunicazione all’Università di Pisa; Carlo Bartoli, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Toscana; Veronica Neri, ricercatrice di Filosofia Morale presso l’Università di Pisa e Marcello Vitali Rosati, professore di Letteratura e Cultura digitale presso l’Università di Montréal.
È proprio la presenza-assenza del prof. Vitali Rosati, intervenuto in videoconferenza, a farci riflettere non solo sul concetto di immagine ma anche sulla difficoltà nel definire il concetto di verità.

Ontologia, etica del IF2017: Ontologia, etica del digitale ed etica dell’immagine virtuale tra imitazione e realtà
Per quanti il prof. Vitali Rosati era presente all’evento e per quanti non lo era? Il digitale, e nel caso specifico l’interazione sincrona in audio, video e dati, assottiglia il confine della verità certa, permettendoci di essere presenti in un modo “non meno autentico, solo diverso” come il professore (o sarebbe più corretto dire: la sua voce e la sua immagine?) ha affermato.
“Quid est veritas?”, come la frase latina lascia intendere, è un interrogativo vecchio quanto il mondo e non una novità del mondo digitale. Le tecnologie però, con specifico riferimento agli strumenti capaci di ritoccare e manipolare un’immagine, hanno introdotto nuove complicazioni nella ricerca di una risposta, in un’epoca in cui l’immagine assume un ruolo sempre più rilevante. L’immagine non è più la rappresentazione di qualcosa ma è l’immagine stessa a produrre il reale; non è più la prova di un ricordo, come lo è stata in altre epoche, ma è perché un’immagine esiste che l’avvenimento si produce. Banalmente, è perché ho scattato una foto al concerto che il concerto stesso e la mia presenza sono reali.
È necessario, dunque, definire i confini che rendono accettabile l’alterazione dell’immagine nel mondo digitale, ma soprattutto è necessario comprendere perché la deformazione avviene e a quale scopo.
Una manipolazione volta a preservare un senso estetico sarà relativamente ben accetta rispetto ad un’alterazione che modifica il senso stesso dell’immagine, dando un racconto inesistente dei fatti, pregiudicando la verità stessa. È palese la difficoltà che sta nel delimitare quale grado di alterazione è accettabile, come affermato da Carlo Bartoli “non c’è nessun algoritmo che possa oggettivamente dire se una foto è alterata o solo ritoccata. È necessario fare affidamento sulla cultura, la sensibilità, l’attenzione del soggetto stesso”. Con la crescente difficoltà nello stabilire cosa sia autentico e cosa no, si instaura tra il fotografo, il giornalista o qualsiasi addetto ai lavori e il pubblico un rapporto di fiducia che viene interrotto nel momento in cui l’alterazione dell’immagine è tale da raccontare una falsità. Rapporto fiduciario che le testate giornalistiche dovrebbero impegnarsi a tutelare proponendo esclusivamente un’immagine vera, o quanto meno il più vera possibile.
Tutto è deformato: la prospettiva, la luce, la posizione da cui guardiamo l’immagine, offrono una visione della realtà diversa. È necessario definire quali deformazioni siano accettabili e quali no, con l’obiettivo di preservare il vero.
Erika Branca per RadioEco