Dopo essere stato presentato alla scorsa edizione della Festa del cinema di Roma, esce nelle sale italiane 3 Generations, ultimo film di Gaby Dellal, riguardante un tema delicato come il cambio di sesso negli adolescenti, ma soprattutto la difficoltà di mantenere quell’equilibrio precario in famiglia che ci aiutia ad evitare i soliti scontri generazionali.
Di Elisa Torsiello
Ray (Elle Fanning) ha 16 anni. La ragazza si trova dunque in quel delicato momento dell’esistenza in cui ogni ragazzo o ragazza ha paura di affrontare il proprio destino, chiedendosi che ne sarà di loro, ma soprattutto, chi loro siano. Ray invece sa già chi è e sa già ciò che vuole. Queste due sicurezze sono ben interrelate tra di loro. Ray si sente un ragazzo intrappolato nel corpo di una ragazza, e come la farfalla che liberatasi dal guscio dello scafandro, potrà librarsi finalmente in volo, così lei è decisa a liberarsi di un corpo che non sente suo, e rimuovendo tutto ciò che la rende femmina, ottenere le ali che la potranno far volare libera nel cielo della spensieratezza. Ray non è sola; dietro di lei vi è una famiglia tutta al femminile che – chi più, chi meno – è intenzionata ad appoggiarla in questa sua transizione. Poiché minorenne, per far sì che Ray possa realizzare il suo sogno, sua madre single Maggie (Naomi Watts) dovrà rintracciare dopo anni, il suo ex-compagno (e padre di Ray) Craig (Tate Donovan) mettendo così a repentaglio il suo già precario equilibrio. Chi sarà a nutrire qualche dubbio riguardo tutta questa faccenda sarà la persona da cui Ray si aspettava ricevere il suo più completo supporto: la nonna lesbica Dolly (Susan Sarandon). Quello portato in scena dunque da Gaby Dellal non è solo un film, bensì un viaggio, un’odissea cognitiva attraverso cui, utilizzando come strumento catalizzatore il cambiamento di sesso, illustrare le dinamiche famigliari e tutte quelle tribolazioni che sorgono nel far crescere il proprio figlio.
Non è mai facile trattare un argomento così delicato come quello del cambio di sesso; figuriamoci se una tale decisione viene narrata nel contesto della realtà fittizia fatta a fotogramma cinematografico, dove ogni emozione viene esasperata e ogni sentimento acuito. Difficile risulta calibrare il grado emotivo con cui tale argomentazione verrà poi portata sullo schermo. Se si decide di affrontare tale decisione in maniera leggera si corre il rischio di risultare irrispettosi e indelicati; se, al contrario, la si riporta in maniera drammatica, state sicuri che pioveranno critiche per la troppa seriosità con cui si è affrontato l’argomento.
Gaby Dellal con il suo 3 Generations ha dunque cercato una via di mezzo tra questi due estremi diametralmente opposti, riuscendo in questo suo intento per ben tre quarti di film. La regista britannica è stata cioè capace di camminare su quel filo teso che la separava lo humor, dalla sincera serietà degna dell’argomento trattato, senza cadere pertanto nel ridicolo o nell’irreale. Crediamo a Ray; consideriamo i suoi sentimenti e i suoi dolori reali, e non meri simulacri visivi di una realtà troppo spesso così lontana da noi. Ray si fa rappresentazione visiva di un universo – quello dei transgender – che, magari nascosto, ci circonda silenzioso, mentre noi lo sorpassiamo ignorandolo. Tutto sembrava perfetto. Ogni singolo dettaglio è curato nei minimi dettagli, volto ad avvicinarci ad ogni singolo personaggio, facendolo uscire dallo schermo e rendendolo umano. Tutto nella scenografia concorre a questo proposito, a comunicare e sottolineare, cioè, un aspetto specifico delle donne protagoniste. Si pensi alla location principale del film: una casa a più piano del 19° secolo di New York con una ripida scala come unico mezzo di collegamento tra i piani occupati da Dolly e la sua compagna, e quelli abitati da Maggie e Ray. La scala si fa dunque metafora della vita di Maggie, con quei gradini che la separano e la isolano lontana nel suo mondo, ma allo stesso tempo la tengono comunque legata alle proprie radici famigliari. Lo stesso decor ambientale e gli spazi occupati dalle tre differenti generazioni diventano delle proiezioni visive della loro differente personalità. Dolly e Frances vivono in un ambiente fresco e minimalista, simbolo della loro spensieratezza e del loro interesse artistico; quello di Maggie è, al contrario, un piano decorato in maniera sciatta e con poca cura nell’arredo; esso va a riflettere pertanto non solo la volontà di Maggie di non vivere per sempre in quella casa, ma anche del suo lento e inconscio intento di lasciarsi andare. Perfino la scala dei piani con cui la regista inquadra i propri personaggi, vanno a sottolineare visivamente i gradi affettivi che i le dinamiche relazionali delle tre donne hanno raggiunto. Quando, cioè, Ray si scontra con la nonna Dolly, i piani si fanno più ravvicinati, non solo per indagare in maniera più profonda, sentimenti e giudizi che separano le due protagoniste, ma anche per rimarcare quanto nonna e nipote si trovino su livelli troppo differenti; così come risultano cioè incapaci di condividere lo stesso pensiero, così le due sono impossibilitate a condividere la stessa inquadratura. Al contrario, nel momento in cui in campo vi sono Ray e Maggie, i campi si fanno più ampi, segno dell’appoggio totale (come totale è il tipo di inquadratura) che la madre esprime nei confronti della figlia.
Eppure, in un contesto così accurato tecnicamente e scenograficamente, la Dellal finisce per cadere proprio nel finale, buttando all’aria tutto il lavoro precedentemente eseguito con minuziosa e certosina attenzione. La conclusione di questa indagine sull’identità e sui rapporti familiari, su come le nostre scelte possano influenzare inevitabilmente la vita di chi ci circonda e ci ama, si addice maggiormente a una pubblicità della Mulino Bianco che alla vita di Ray. È una conclusione ruffiana, falsa, contrastante con il tipo di storia portata avanti fino a quel momento.
Nonostante ciò, a rendere veramente incisivo questo film, soprattutto dal punto di vista emotivo, sono le interpretazioni magistrali del trio Elle Fanning – Naomi Watts – Susan Sarandon, il che non può far altro che aiutare l’immedesimazione dello spettatore nella vicenda raccontata.
Dopotutto ricordiamoci che di fronte a spicchi di vita del genere, il cinema esercita un potere inimmaginabile. Rendendo vero tutto ciò che non è altro che luce sotto forma d’immagini in movimento, il cinema riesce ancor più a far pensare le persone, a scuotere le loro coscienze, a far interiorizzare problemi che pur non toccandoci direttamente, sappiamo esistere. Ben vengano dunque opere come quella di Gaby Dellal, ma 3 Generations non è Transamerica. Pur affrontando un medesimo argomento, l’opera della Dellal non riesce a colpire nel profondo come quanto il film con protagonista Felicity Huffman. Ciò che piuttosto colpisce del film è l’immensità della forza con cui vengono rappresentate le 3 generazioni di donne. Tutte e tre non sono altro che un aspetto metonimico della forza femminile in generale. Ognuna di loro, cioè, mostra un aspetto che rende così unica l’essere donna. C’è la donna forte e orgogliosa come Susan Sarandon; c’è la donna forte e indipendente, che apparentemente non ha bisogno di niente e di nessuno come Naomi Watts; c’è la donna che nel suo non sentirsi tale, mostra quanto forte e decisa una donna può essere come Elle Fanning.
Come la famiglia protagonista, anche l’opera di Gaby è quasi perfetta. I difetti abbondano, così come la caduta in certi clichè narrativi triti e ritriti. Eppure quando si basa su un concetto come la volontà sincera e pura di trattare un argomento così scomodo, un film non può che essere premiato che con un gesto di approvazione.
A seguire l’intervista a cura di Elisa Torsiello alla regista Gaby Dellal
Elisa Torsiello per RadioEco