Quanto può far paura fare un passo avanti nel cammino della nostra vita? Quanta paura in un gesto così semplice? Partendo da questa immagine Fabio Guaglione e Fabio Resinaro hanno dato vita al film fenomeno del momento, Mine. Di seguito la nostra recensione e l’intervista ai registi.
Di Elisa Torsiello
Ci sono aspetti della vita che tendiamo a prendere per scontato. Mangiare, bere, camminare. Sono gesti assolutamente naturali e compiuti in maniera del tutto inconscia, ma che per un caso o per destino, possono compromettere per sempre la nostra esistenza, tramutandosi in gesti pericolosi. Mangiare un alimento a cui siamo allergici; bere acqua inquinata; posare il proprio piede su una mina. Quanto un gesto così semplice può divenire un attacco alla propria persona? Cosa può nascondersi dietro di esso? Che conseguenze può portare l’istinto di sopravvivenza che con tutte le proprie forze, affronta il corpo e la mente dell’uomo stesso? È partendo da un’idea così semplice, come il calpestare col proprio piede una mina antiuomo, che i registi italiani Fabio Guaglione e Fabio Resinaro hanno poi costituito uno dei film fenomeno degli ultimi mesi: Mine.
Una coppia di soldati, a seguito di una missione andata male, sono in cammino verso il campo base. Uno dei due, il più scaltro e incosciente, mette accidentalmente un piede sopra una mina. Proprio nel momento in cui anche l’altro, il tiratore scelto Mike, cerca di andargli incontro per aiutarlo, ecco che si ritrova con un piede sopra un’altra mina. Da questo momento in avanti, senza alcuna possibilità di muoversi, Mike dovrà sopravvivere ai pericoli del deserto e alla terribile pressione psicologica.
Se Gabriele Mainetti era riuscito con Lo Chiamavano Jeeg Robot a rielaborare in chiave italiana un genere come quello dei supereroi, Fabio&Fabio sono riusciti a fare quello che per il proprio protagonista è difficile compiere, ovvero un passetto in avanti. I due non solo sono riusciti a rinvigorire un genere poco sviluppato in Italia come il thriller psicologico, ma nel farlo hanno da una parte infondato su una semplice immagine, un significato metaforico dall’impatto universalmente emotivo, mentre dall’altra hanno dato vita a un domino visivo e mediatico dalla rilevante forza attrattiva. Se la sensazione che si viene a creare è di forte claustrofobia psicologica, (nonostante a fare da ambientazione sono le dolci e aride dune di un deserto) è perché i due registi hanno saputo mettere in gioco aspetti ed elementi presi in prestito da varie realtà mediatiche e tecnologiche che ci accompagnano virtualmente ogni giorno, dando vita così a una transmedialità facilmente riconoscibile all’occhio dello spettatore, e proprio per questo generante un processo di immedesimazione più immediato, tanto da far condividere con il protagonista, lo stesso stato di ansia e angoscia. Privato piano piano del nome, ovvero dell’unico elemento che rende unica e immediatamente identificabile una persona, Fabio e Fabio fanno del proprio personaggio un’icona metonimica di un sentimento universalmente condivisibile: la paura di andare avanti ed uscire dall’impasse che ci blocca nel presente.
La mina, dunque, fa paura perché più che la morte, rinchiude in sé il pericolo del futuro, dell’insicurezza di quello che troveremo sul cammino del nostro destino, e che per questo ci blocca, incapaci di andare avanti e fare un passo in più. Minuto dopo minuto, cominciamo a dimenticarci ben presto della mina, per iniziare a focalizzarci su Mike, facendo la sua conoscenza. Iniziamo a capire perché non ha compiuto la missione che lo ha condotto nella situazione in cui si trova, e il vero motivo che lo spinge a rimanere così immobile e inerme: il terrore di fare l’ennesimo passo falso della sua vita. In questo gioco di specchi e immedesimazioni, un grande ruolo è stato giocato da Armie Hammer. È lui il punto focale su cui si è giocata l’intera opera; bastava un passo falso, questa volta in senso puramente attoriale e interpretativo, che il mondo così faticosamente costruito e messo in piedi da Fabio&Fabio sarebbe caduto a pezzi, esploso come il corpo di un uomo esplode allo scoppio di una mina. Hammer ha accettato la sfida, portandola a termine in modo egregio. È riuscito a creare un personaggio complesso, e pertanto reale, donandogli tutte le sfaccettature psicologiche ed emotive del caso.
La stessa musica giunge alle nostre orecchie come un valzer dalla forte dose empatica, caricando in ogni singola scena, l’emozione e il sentimento in essa dominante. Ecco dunque che la colonna sonora, composta da Andrea Bonini, (che con i due registi ha condiviso ogni singolo progetto, oltre che i banchi di scuola) diviene terzo linguaggio cinematografico (oltre a quello visivo e verbale), aiutando a scindere il film in due blocchi narrativi: il primo è quello dell’azione, e non a caso la musica che accompagna gli eventi di questa prima parte è martellante e dal ritmo concitante, memore della lezione dei classici film americani. Nel secondo blocco, maggiormente introspettivo, si fa a meno di questa impetuosità musicale, per puntare piuttosto sul lato emotivo e inconscio dello spettatore, e andando a toccare le sue corde più nascoste e intime . aggiunge un suono più introspettivo e questo allontana definitivamente il film da una concezione di colonna sonora tipicamente americana.
Partendo dal nulla, o meglio da una semplice immagine, Fabio e Fabio sono stati capaci di creare un intero universo diegetico; la vera esplosione non è quella della mina, ma quella di un big bang interno ed esterno al film, fomentato da un’immaginazione e creatività degne dei più grandi autori e movie-makers internazionali. È un big bang chiamato talento.
Di seguito la nostra intervista, ad opera di Elisa Torsiello, ai registi.
VOTO: 8