Chi non era pistoiese avrà rosicato molto mercoledì sera. Perché? Il Pistoia blues ha riservato un concerto gratuito a tutti i residenti della città toscana, e non un concerto da poco. Sullo stesso palco abbiamo visto alternarsi due delle migliori interpreti femminili in circolazione in ambito rock e folk, cioè Joan as police woman e Suzanne Vega.
Vi dico che questo è stato il concerto che, sin dai giorni in cui era stato annunciato il cartellone, avevo subito segnato in calendario, ancora prima di entusiasmarmi per Lanegan o per la reunion dei Morcheeba. Se dovessi dirvi le ragioni esatte, direi una “premonizione”. Nel senso che sapevo già che sarei rimasto sconvolto.
Spoiler: sono davvero rimasto sconvolto. Per diverse ragioni. Partiamo subito dall’esibizione di Joan Wasser aka Joan as police woman. Si presenta sul palco del Pistoia blues con un’efficiente e solida formazione a quattro, con tastiere, chitarra e batteria. La scelta dei pezzi in scaletta prevede alcune delle perle dell’ultimo disco The Classic: apre con la marzialità soul di What Would You Do, e poi è la volta della deliziosa Holy City, arrivando poi al rock di Good Together e alle atmosfere soffuse di Get Direct. Sono tutti pezzi che esaltano uno spettro ampio di generi e sfumature, dal rock al soul, sino a spruzzi di jazz che emergono dalla destrezza di Joan con l’hammond. I pezzi dal vivo acquistano ancora più punti delle versioni in studio, e rimango anche molto colpito da come Joan alterna la sua esibizione passando dalla tastiera alla chitarra elettrica fino al violino, suo primo grande amore. Chapeau!
Il pubblico pistoiese purtroppo non ha un’idea chiara di chi ha davanti… questi sono gli inconvenienti di aprire le porte di concerti di qualità così elevata solo ai “residenti”. Vallo a trovare un pistoiese che sappia accennare mezzo ritornello. Va bene, meglio così… è tutto molto indie. Personalmente mi hanno esaltato le scelte di Shame e Magic, che hanno alzato il ritmo della serata. E quando la situazione cominciava davvero a farsi interessante, e io mi ero già innamorato di Joan, siamo costretti ad assistere ai suoi saluti di commiato.
Neanche una mezz’ora di cambio palco e assistiamo all’ingresso della poetessa newyorkese Suzanne Vega, accompagnata soltanto da Mike Viscelia alla chitarra e Doug Yowell alla batteria. Siamo a quasi trent’anni dal suo debutto discografico, ed è sempre una sorta di angelo che veste di nero. Lei, intrisa di una poesia intimista, è passata indenne come un bagliore di pura bellezza in mezzo alle sbornie della grandeur reaganiana, del machismo americano di Bush, della crisi mordente degli anni Dieci. Sicuramente il suo stile si è rasserenato, il suo sguardo con gli anni si è allargato, ma io mi sento ancora molto a mio agio con il suo intimismo oscuro, perché riesce a parlare alle corde del cuore.
Parliamoci chiaramente: con la sua voce gentile, con il suo fraseggio corto, Suzy potrebbe cantare qualsiasi cosa, e renderla un’opera di arte. Vi potrei dire che ha cantato tutti i suoi successi, brani ormai passati alla storia della musica, fra cui Luka, Small blue thing, e Marlene on the wall, accanto a una serie di nuove canzoni tratte dal suo ultimo album Tales from the Realm of the Queen of Pentacles, rilasciato pochi mesi fa. Ma non è la lista dei pezzi che qui importa. Importa, per esempio, che Jacob and the angel è uno dei pezzi più distruttivi per le barriere analitiche che i critici musicali esibiscono come muscoli. Sulla coda strumentale gli occhi mi si sono inondati di lacrime, senza poterci far nulla. Ho serrato le labbra, ho tentato di non farmi sgamare dai fotografi accanto a me in questo attimo di debolezza, ma se avessi potuto avrei pianto a dirotto.
Tolto questo intermezzo sentimentale, posso dire razionalmente di aver apprezzato molto i nuovi pezzi proposti nella versione live, dove si va dagli arpeggi cortesi di Portrait of the Knight of Wands alle cavalcate decisamente folk di Fool’s complaint. E poi ci sono le riletture decisamente rock di Tom’s diner, con cui si è chiusa la prima parte del concerto, prima della seconda encore. Questo pezzo credo che fosse l’unico conosciuto dal pubblico dei residenti, merito pure di qualche trasmissione notturna di Mtv.
La Vega ha suscitato la mia simpatia anche in alcune presentazioni dei suoi pezzi, in particolare quella che ha preceduto I never wear white, facendo un elogio del nero e di tutti i significati che si porta dietro. Per uno che si veste di nero anche sotto il sole di Luglio questo pezzo sicuramente era uno dei più sentiti.
Uno che non è stato a Pistoia potrebbe aspettarsi di aver assistito a una specie di cantautorato à la Leonard Cohen, però al femminile. In parte è vero. Ma se pensate che cantautorato voglia dire suoni tenui e sommessi, e anche un po’ deprimenti, si sbaglia di grosso. Il trio capitanato dalla Vega ha regalato un ottimo rock, merito di un chitarrista stagionato (con ciuffo viola – un mito!) assolutamente a suo agio con un’effettistica molto contemporanea, che potrebbe dar filo da torcere ai Black Angels senza problemi, e un batterista in camicia in grado di pestare come un dannato, facendo letteralmente spezzare frammenti delle sue bacchette.
Se proprio dobbiamo trovare una nota di demerito in questa serata (e a tutto il Festival) dobbiamo guardare non verso il palco, ma sotto palco. Mi spiego meglio. La nostra emittente aveva chiesto degli accrediti fotografici, che all’inizio ci furono assicurati, salvo poi negarceli il primo giorno di festival. La motivazione era che sarebbero stati accreditati solo grandi quotidiani e agenzie. La realtà diceva un’altra cosa: quasi una trentina di fotografi accreditati, di cui molti erano free-lance e/o mediocri supporti umani di costose reflex. Morale della favola: abbiamo dovuto raccontarvi questo festival mandando la nostra fotografa come una clandestina in prima fila, fuori dalla buca dei fotografi, a prendere spintoni da tutti ma soprattutto le minacce della security. Infatti, la produzione del festival ha pensato bene di concedere l’esclusiva dei diritti solo agli accreditati, quindi un comune cittadino con una buona macchina fotografica non poteva avvicinarsi alla prima fila, altrimenti la solerte security avrebbe intimato al fotografo clandestino di tornarsene sul fondo della piazza. Ebbene sì, durante il concerto di Suzanne Vega, il capo dell’ufficio stampa ha avuto l’ardire di minacciare una nostra collega, dicendole che l’avrebbe fatta accompagnare fuori dalla piazza se avesse scattato altre foto.
In tanti anni che seguo festival, grandi e piccoli, questa è una caduta di stile che non ci aspettavamo. Ma occorre raccontarla, senza alcun timore, perché è diventato intollerabile incontrare uffici stampa che si comportano come satrapi dei media, solo perché vengono messi nelle condizioni di elargire immunità o privilegi ai pochi, e pesci in faccia ai più. La nostra radio, come tante altre testate giornalistiche, affronta spese in termini di tempo, energie, e anche denaro, per assistere ai festival. Certo, ci divertiamo, perché la musica per noi è una sorta di missione di vita ma poiché, con il nostro impegno, garantiamo una visibilità agli eventi che seguiamo, ci piacerebbe molto che festival internazionali così rinomati come il Pistoia blues manifestassero anche una certa serietà nei confronti di tutte le testate, senza gestire l’intera faccenda degli accrediti come una sorta di “affare di famiglia” per pistoiesi, e soprattutto mettendo anche i media meno blasonati nelle condizioni di informare bene e di lavorare in sicurezza. Per la cronaca: la nostra fotografa Michela Biagini durante il concerto degli Arctic Monkeys ha rischiato una frattura al piede, mentre era stretta tra la transenna e la bolgia infernale. Quale santo in paradiso ci serve per portare a casa sani e salvi i nostri redattori?
Qui si fa il blues, e il blues non è musica per privilegiati.
Giuseppe F. Pagano
Redazione musicale
L’intera gallery fotografica del concerto a cura di Michela Biagini la trovi qui