È statisticamente provato. Se dici a un tuo conoscente che vai al Pistoia Blues a vedere Mark Lanegan, nove volte su dieci quest’ultimo ti risponderà “Chi?”. “Ma io lo so chi è Mark Lanegan, arrogante bottegaio indegno della roba che vendi qui dentro”… ci sarebbe da rispondere a tutti, ma tutti non sono bottegai di vinili, e soprattutto io non sono Max Collini. Ho poco da fare il saccente; conosco Lanegan solo perché in un tempo lontano avevo rubato degli album a caso dal pc della mia ex.
Insomma gente, facciamola breve, sono stato a uno dei migliori concerti degli ultimi anni. Solo a Pistoia poteva succedere la magia, peraltro nel primo giorno di festival, in un contesto intimo e raccolto come quello del Teatro Manzoni. Sarà che gli organizzatori volevano farsi perdonare la scelta d’aver piazzato i Negramaro (chi?) come apertura, sarà che il popolo del blues mal sopporta i falsetti di Sangiorgi, sarà che la cover di Claudio Villa ha portato un po’ merda al mondiale, insomma… Ci doveva essere Lanegan a portare un po’ di sana devastazione esistenziale al Pistoia Blues.
La geografia umana tra piazza Duomo e la piazza antistante il Teatro Manzoni è drammaticamente opposta. Sotto il megapalco stavano stipati – in ordine di apparizione – “regazzine”, genitori di “regazzine”, milf & cougar, giovani maschi ultra-ventenni più scollati di escort olandesi, anziani curiosi (come i delfini). Davanti al Teatro Manzoni faceva la fila una silenziosa calca di suicide girls, di veterani del Pistoia blues, vecchi fan degli Screaming Tree e relativi figli al seguito, di coppiette che poi avrebbero limonato sui palchetti, aiutati dal buio. Insomma, il meglio che potessi desiderare dalla gloriosa tradizione di questo festival.
Nella mia timidezza riesco solo a fare due chiacchiere con una fotografa de “Il Tirreno”. Ebbene sì, anche la sociopatia più spinta è messa a dura prova dalle attese, e infatti sino alle 21 e 15 di sera non sapevamo se gli accreditati stampa potessero entrare o meno al concerto. Tutto ciò rendeva la situazione ancora più elitaria, e quindi più figa.
Insomma, alla fine ci concedono l’accesso al Teatro. Dall’altro lato del centro di Pistoia, la bellissima Levante, sicuramente stava cantando “che vita di merdaaaa”. Ma Levante aveva poco da lamentarsi con la folla oceanica che aveva davanti, pronta a ripetere il suo refrain come preghiera corale per le divinità ostili. Noi invece eravamo pochi, all’inizio sembrava che ci fossero più fotografi che pubblico pagante. La cosa mi aveva un po’ preoccupato. Anche perché con la mia fotocamera bridge, vicino a una linea di fuoco di obiettivi 24-70 e cannoni 70-200, mi sentivo un po’ come i bambini che giocano con i miniciccioli accanto all’artiglieria della Wehrmacht.
Per fortuna la sala si riempie e il vasto pubblico assiepato sul loggione dice solo una cosa: siamo un Paese in piena crisi, neanche gli 80€ di Renzi ci permettono di scendere in platea. Quando le luci cominciano a spegnersi la tensione dell’attesa sale.
Sono quasi 21.45. Un tripudio accoglie Mark Lanegan e il suo chitarrista, il buon Jeff Fielder armato di chitarra elettrica. La scelta della chitarra elettrica dice una cosa sola: non sarà un concerto così intimista come lasciava intuire la location. E me ne accorgerò subito dalla mia postazione proprio sotto cassa.
I fotografi si assiepano ai lati del palco, e Mark si attacca al microfono. Qui parte l’attacco di Judgement time. Una versione decisamente più imperiosa di quella acustica ascoltata un po’ di giorni fa su KEXP (la radio dell’Università dello stato di Washington n.d.r.).
La voce di Lanegan fa ribollire le viscere, un impatto devastante. Dentro quella voce c’è tutta la religiosità dell’America, i suoi deserti polverosi, le sue contraddizioni profonde come le gole del Grand Canyon, i fantasmi personali di Lanegan che ne ha viste di tutti i colori. C’è solo da chiudere gli occhi e lasciarsi pesare l’anima in questo “giorno del giudizio”. Lanegan raggiunge livelli di profondità timbrica inaudita in una scena musicale dominata da voci isteriche in competizione per la nota più alta, più gridata, o più soporifera.
Il comparto scenografico aiuta in questa essenzialità: tutto è sospeso in una non-luce, gli unici illuminati sono chitarrista e cantante, entrambi di luci rosso fuoco, su uno sfondo blu ultramarino. Entrambi vestiti di nero, come due sacerdoti infernali sulle rive dello Stige. Proprio questa scelta di luci rende pressoché impossibile scattare foto, e quindi un po’ maledico Mark.
Arrivano poi due perle magnifiche in sequenza, Cherry Tree Carol e One Way Street. Conosco a memoria la prima delle due, e posso cantarla senza alcuna vergogna. Dopo One Way Street i fotografi della Wehrmacht spariscono e io mi trovo tranquillamente seduto in prima fila, in un posto libero lasciato da non so chi.
Per fortuna in scaletta compaiono anche le cover di Imitations, che chiamarle cover è un insulto. È come rivedere nuovi Adamo e nuove Eva riplasmati da un altro dio. La prima in lista è Don’t forget me, dei Mad Seasons, più avanti arriveranno anche l’intensa e suadente You Only Live Twice, e la splendida versione di Autumn Leaves, che rivaleggia in bellezza con l’interpretazione di Eva Cassidy, rappresentandone il lato oscuro. Io avevo altre aspettative sulle scelte di scaletta, per esempio tifavo per Flatlands e Deepest Shade.
Il pubblico si accende sulle note di Phasmagoria Blues, uno dei pezzi più belli di Funeral Blues. La chitarra qui fa un lavoro splendido di rifiniture (un po’ dappertutto nella setlist in realtà). Il buon Jeff è come se avesse in mani due chitarre, e la voce di Mark pensa a fare il resto. La morale è che raramente ho sentito un duo voce e chitarra così corposo e compiuto, senza vuoti o pericolose sovrapposizioni della chitarra sulla voce. Adesso rimane solo la curiosità di sapere come saranno le versioni in studio di I’am the Wolf e Judgement time, entrambe anticipazioni del nuovo album in uscita per Agosto.
Momento intensissimo, a livello puramente personale, è stata un bellissimo standard del blues: oh Jesus program. Una chitarra essenziale stavolta, con accenti texmex, ha seguito l’incedere di questa preghiera che fa ritrovare la fede ai peggiori bestemmiatori.
Lanegan alla fine di questo pezzo saluta e si allontana con il chitarrista. Ma tanto lo sappiamo tutti che sta per tornare. Ancora ci deve sparare in faccia i pezzi più quotati dai bookmakers. L’encore si apre con Reaching for the Moon, anche questa anticipata su KEXP, con un suggestivo lavoro di arpeggio della chitarra. E poi arrivano, in sequenza, Wild Flowers, Bombed e Halo of Ashes. Qui il pubblico va veramente in delirio, soprattutto i fan della prima ora. Personalmente mi concedo anche qualche inciso cantato a squarciagola. Ancora applausi a Jeff Fielder per l’introduzione a Halo of Ashes, e per la conclusione dove si è concesso un assolo virtuosistico che ancora mi rimbomba nel torace.
Il concerto si conclude così. I nostri salutano e si ritirano. Jeff però prima ci scatta una foto. Quando le luci si alzano il pubblico è ancora incredulo e affamato. Vuole un nuovo rientro di Lanegan. E invece niente, perciò lascio la vicinanza del palco mentre due soggetti si azzannano (letteralmente) per una scaletta.
Sulla via dell’uscita trovo il buon vecchio Mark che si concede a foto e autografi. Una scelta che effettivamente mi ha sorpreso. Incredulo faccio il passo che non ho mai fatto con nessun altro artista pur avendone le possibilità: mi faccio autografare il pass della stampa. Lui mi guarda con un sorriso, e sicuramente pensa: “questo è uno di quegli stronzi della stampa!”.
Dopo l’uscita io e un collega di una radio pratese c’infiliamo in un gomitolo di strade. La luna è alta nel cielo, i Negramaro che cantano in lontananza sono solo un disturbo passeggero nella pace già raggiunta. Grazie ancora Mark!
Giuseppe F. Pagano
Redazione Musicale