Guess who’s back, motherfucker? Per direttissima, sfuggito all’ardore della fiamma infernale, accogliamo di nuovo fra noi mortali la presenza demoniaca di Skrillex, un po’ Casper, un po’ spermatozoo sulla copertina del primo vero album, Recess, di recente comparso, al seguito di alcuni EP di successo valsi alcuni Grammys, un po’ a sorpresa, un po’ no.
Cominciando con una canzone deliziosamente intitolata All Is Fair in Love and Brostep, cominciante a sua volta per alcune voci sci-fi anni ’50, pronta al decollo come un razzo spaziale; contenendo una traccia espressivamente intitolata Fuck That probabilmente senza un vero motivo; essendo scandito da drop! e bass drop! urlati a sguarciagola, perché altrimenti di che diamine parliamo, un album del genere non può che risultare istintivamente simpatico.
Certamente non si tratta dell’opera del secolo e nemmeno dell’album dell’anno, lo sapevamo anche prima di ascoltarla e di sicuro lo sapeva anche Skrillex prima ancora di nascere (sempre ammesso che sia stato partorito da alcuna), ma di un album sfizioso, molto divertente, un peccatuccio innocente. Al suo interno non troveremo sottigliezze o raffinatezze di sorta, e se tentate sono talmente ingenue da far tenerezza, o anche testi profondi e curati, al contrario questi sono sempre funzionali alla musica, servono a “fare atmosfera” per così dire, con una stessa strofa spesso ripetuta più volte, e nemmeno li cerchiamo. All the fellas, put your hands in the air, say we don’t care.
Bisogna anzi complimentarsi con Skrillex per la saggia scelta di variare per quanto possibile la sua consolidata formula brostep, ormai dilagata per ovunque, già un poco fuori moda, spesso noiosa, effettivamente ripresentata immutata in pochissime tracce, come Try It Out (Neon Mix), sconfinando per il resto in altri territori, sbandando come per mancanza di un’idea precisa, ma sempre raggiungendo la meta.
Così la consueta successione di drop micidiali è riscattata dalle inflessioni giamaicane, via jungle, dei veterani Ragga Twins, nella già citata traccia d’apertura e in Ragga Bomb, o dalle derive pop di Recess, il cui accattivante ritornello è cantato da Michael Angelakos, frontman della band indie Passion Pit – vi sta bene, hipster del cazzo! – o di Coast Is Clear, la collaborazione semplice ma efficace con Chance the Rapper, il quale canticchia come per a caso, come si fa sotto la doccia, su un ritmo drum&bass dalle influenze jazz scopertamente kitsch, versi non propriamente lirici (I don’t really give a what! What I need to know is / Do you wanna fuck? Do you wanna fuck?).
Con questa forma un dittico delizioso la seguente Dirty Vibe, che certo, si potrebbe obiettare, è poco personale, una mezza copia delle sonorità Mad Decent così come riutilizzate dal K-Pop, tanto più che vi mette lo zampino Diplo in persona. Ma chi se ne frega, la canzone è una gioia, le stelle coreane che vi partecipano, G-Dragon dei Big Bang e CL delle 2NE1, sfavillano col massimo luccicore, folgorando in inglese come i colleghi americani. Soprattutto il rap di CL è dirompente (I’m your girl’s lesbian crush, / She ain’t with you, she be rollin’ my dirty vibe).
Altrove Skrillex sfuma i contorni e le percezioni, si allontana dal fracasso fragoroso della sua furia imperante. In Fuck That si cimenta con la dubstep ante-brostep, come per liberarsi una volta per tutte da una colpa millenaria, dall’accusa dei suoi nemici – e forse allora il titolo avrebbe senso –; in Doompy Poomp si abbandona come un fanciullo, per quanto l’immagine, so bene, sia difficile da figurarsi, ad un sogno glitch. In altri casi ancora cerca di far scaturire una seppur minima favilla di emozione, in Stranger per esempio, in Ease My Mind, remix di Nicki and the Dove, o ancora nella conclusiva Fire Away, che riprende, nel suo malinconico andamento garage, laddove aveva lasciato Leaving, su cui aleggiava lo spettro di Burial. Dance like it hurts to stand still.
Luca Amicone
Redazione musicale