Le catastrofi e le redenzioni degli ultimi. Thanks for vaselina al Teatro Era

Tempo fa ascoltai una canzone dei Baustelle che conteneva un inciso parlato: “Disillusione per disillusione, meglio la maleducazione che una canna di pistola alla tempia”. Per capire appieno il senso di questa frase ho dovuto attendere l’ultima prova di Carrozzeria Orfeo andata in scena al Teatro Era di Pontedera sabato sera.

Erano passate appena 48 ore dalla rappresentazione di Idoli, eppure i ricordi ancora nitidi dell’altra pièce sono stati completamente asfaltati da Thanks for vaselina, un’opera che seppur ritorna sul tema sempre fecondo della famiglia, stavolta lo fa con personaggi ancora più borderline, con moti ascensionali e discensionali ancora più furenti, ma senza il disastro finale che incombe su tutto sin dall’inizio. Thanks for vaselina è un’altra “commedia nera”, dove la penna di Di Luca ancora una volta si destreggia tra iper-realismo e spietata analisi sociale, dove il grottesco è messo al servizio della conoscenza, dove il conflitto tra potenze mondiali nel Nuovo Mondo è l’innesco dei conflitti tra familiari e individui dentro il vecchio mondo domestico.

Scrittura feroce, e ancora una volta equilibrata. Al contrario di una Crimpland con trama debole e situazioni quotidiane, in Thanks for vaselina si parte da un’orchestrazione corale di personaggi borderline infilati in vicende al limite del grottesco, tuttavia si tratta di personae vere e riscontrabili nella fauna metropolitana e provinciale. I loro conflitti dipingono un quadro di desolazione spirituale e materiale che riguarda anche le vite meno “caricate”, le esistenze più comuni. Il linguaggio, elemento fondamentale nella drammaturgia di Carrozzeria Orfeo, gioca tra dramma familiare e stravaganza, violenza verbale alla South Park e umorismo eccentrico british, il tutto unito da dialoghi serratissimi, e una limpidezza del quotidiano che lascia maggior spazio alle increspature umorali, alle decisive interpretazioni degli attori.

Thanks_2613 (ph.L.Tota)Ora scegliendo la forma di una soap-opera finita nelle mani di Almodovar, ora scegliendo un montaggio onirico più vicino a un videoclip musicale che alla pièce teatrale, questa storia racconta la convivenza tra Fil (Gabriele Di Luca), cinico-disilluso, e Charlie (Massimiliano Setti), fiero idealista anti-capitalista e difensore dei diritti civili, entrambi trentenni con un futuro incerto e un passato altrettanto incerto. Hanno trasformato il loro appartamento in un tentacolare sistema di produzione di marjuana, con un obiettivo ambizioso: invertire il traffico della ganja, esportandola dall’Italia al Messico, aiutando così i poveri messicani che si sono viste le loro piantagioni (e le loro case) bombardate dagli Usa. Nella vicenda s’inserisce accidentalmente Wanda (Francesca Turrini), una trentenne obesa, costretta a dormire in macchina perché scacciata da casa, e per giunta insicura cronica. Ci sono poi le frequenti visite di Lucia (Beatrice Schiros), madre di Fil, una cinquantenne frustrata appena uscita da una clinica per disintossicarsi dal vizio del gioco, e sempre alla ricerca di qualche spicciolo per rigiocarselo alle macchinette. Dopo quindici anni di assenza torna a casa anche il padre di Fil (Alessandro Tedeschi) ed ex marito di Lucia: Annalisa è diventata una transessuale, ma continua ad amare (anche) le donne, e svela a tutti cosa l’ha portato a intraprendere un percorso spirituale dentro una setta.

Come in Idoli non c’è posto per la retorica, ma certamente c’è spazio per sfogliare in rapida successione, con un ritmo davvero incalzante, il manuale di psicologia che si apre ai nostri occhi: emergono ferite familiari lontane, drammi odierni, solitudini incolmabili, felicità inesistenti. Eppure a differenza di Idoli qui i personaggi hanno – nel bene e nel male – una qualche crescita nell’ora e mezza di spettacolo: non sono abbrutiti per sempre dalle loro catastrofi. Lo spettacolo si struttura in tre atti: il primo si dedica all’azione e alla presentazione dei personaggi, il secondo ne delinea i conflitti, il terzo si conclude tra disgrazie e riconciliazioni. Nell’economia dell’opera trova un posto quasi “necessario” l’interludio che si compone di una sinfonia per piattini e tazzine di caffè, a cui vengono associati movimenti del corpo studiati e armoniosi. Questa è una delle cifre stilistiche che riconosciamo alla Carrozzeria Orfeo: saper costruire momenti di grande bellezza in mezzo alla barbarie.

Thanks_2622 (ph.L.Tota)Ci sono altri episodi di notevole bellezza, per esempio un dialogo tra Lucia e Annalisa, dove quest’ultima descrive l’esistenza come una lotta per sentire l’amore: “Sono incredibili tutti i modi che Dio ci ha regalato per sentire l’amore. Tutti questi intrecci, queste possibilità, le combinazioni. Ognuno con il suo corpo diverso, il suo cuore diverso. Come certi insetti che lottano dentro ai muri e cercano ogni fessura possibile per trovare la luce. L’amore. Attraverso le crepe. Questa lotta è la parte migliore della vita”. Non si può non ricordare la celebre frase di Leonard Cohen: “C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce”.

E infine c’è il monologo, affidato a Fil. Quello che sembrava il più infame è il personaggio che riesce a mostrare il lato più umano, prendendosi cura della madre e di Wanda messa incinta da quel ciarlatano di Charlie. Non prima però di aver lanciato – affacciato alla finestra – il suo “anatema del piscio in testa”, con cui condanna tutta l’umanità, senza fare sconti a buoni e cattivi, a Stato e a Chiesa. Meglio stare sul baratro a pisciare su tutti, che buttarsi di sotto. E in quel procedere serrato ricorda il celebre monologo di Monty Brogan (Edward Norton) allo specchio nella 25a ora, quando manda a fanculo tutta New York, disegnando la geografia umana della Grande Mela. E quindi grazie alla vita che si cela in questa maleducata maledizione, anche se un cambio repentino del vento riporta il piscio al mittente, e grazie pure per la vaselina che può rendere dolci le centinaia d’inculate che riceviamo.

Non sarebbe una recensione completa se non parlassi dell’impressionante prova di Beatrice Schiros. Ha saputo rendere onore a un personaggio complesso e comunque trascinante, e ho trovato delizioso il suo accento modenese. E non sarei altrettanto completo se non citassi la delicatezza di Alessandro Tedeschi, soprattutto nei momenti più “elegiaci” del suo personaggio. Ma in realtà la prova attoriale di tutti quanti gli interpreti è davvero mirabile, riesce a non ossidare la tempra di ogni singolo carattere, e disporli correttamente nello spazio. Sorprende davvero trovare una quadratura così riuscita tra scrittura e potenza interpretativa. E come amante della musica non posso che rendere plauso anche alla composizione delle colonne sonore di Massimiliano Setti, a cui auguro anche d’intessere collaborazioni anche con il cinema. Carrozzeria Orfeo è il giovane teatro italiano che crea nuovi amanti del teatro. Così è.

Giuseppe F. Pagano
(redazione musicale)

Foto di scena a cura della compagnia Carrozzeria Orfeo.