Se sei stato un teenager durante gli anni Duemila, vuol dire che con ogni probabilità sei venuto a patti con Avril Lavigne, decidendo infine di amarla o odiarla, a seconda del tuo rapporto più o meno irrisolto col pop. Forse non te ne sei neanche accorto, ma quella piccoletta canadese è appena tornata con il suo quinto album, intitolato semplicemente Avril Lavigne, perché, dice lei, non le è venuto in mente niente di meglio. Invece è soltanto il titolo migliore, in quanto il disco si presenta come la summa musicale della sempiterna sk8er girl, proprio nel momento in cui si riflette sulla natura della sua opera e sul posto che questa può occupare nel panorama attuale, tenendo anche conto di ciò che è stato e che forse non sarà più (se Girlfriend scalava le classifiche di mezzo mondo, oggi i singoli faticano ad entrare nei primi venti). Forse questa consapevolezza, quasi di natura metaletteraria, vi sembrerà un poco eccessiva per la stupidina Avril, più appropriata per la millantatrice Gaga, ma magari le cose sono proprio all’opposto di quanto avete sempre pensato.
Avril è senza dubbio emblema di quel pop-rock allegro e spensierato che ha dominato le classifiche fin quando il pop ha preso una piega diversa, mentre orde di critici di ogni condizione e stato, man mano che gli anni scorrevano, le chiedevano, quasi imponevano, di crescere. Avril ne è uscita fortemente penalizzata e il suo album precedente, Goodbye Lullaby, è stato un flop commerciale. Forse non a caso, è anche il suo album peggiore.
Ora che molti si sono quasi dimenticati che sia mai esistita e mentre il pop è dominato dalle giovani leve, lontane mille miglia da lei, Avril, ormai approcciante la trentina, torna affermando nella maniera gioiosa che le è propria che, fondamentalmente, non le frega un cazzo, che non ha alcuna intenzione di crescere e che continua a fare ˗ tra l’altro benissmo ˗ la musica che vuole e che ha sempre fatto, come esplicitamente afferma nelle prime quattro tracce di questo nuovo album, senza dubbio il momento pop più riuscito dell’anno. Ritornelli magnifici e yeah, woah, uh-uh come se piovesse. Perché come li fa lei nessuno (non sono stati forse campionati anche nella canzone di Rihanna?).
Nella meravigliosamente intitolata Bitchin’ Summer si cattura addirittura la trepidazione dell’attesa della campanella che sancirà la fine della scuola. Già si immagina il tempo felice delle feste e degli amici, quando nulla importa e tutto sembra destinato a durare per sempre. Avril si lancia anche in un piccolo e delizioso rap, come non faceva dal tempo del suo esordio, Let Go, più di dieci anni fa ormai. «I gotta get right before this allnighter».
Sotto la patina spensierata si cela però il senso del tempo che passa, come attesta la bellissima 17, ricordo di quando si era giovani e belli, costruito mediante riferimenti precisi e altamente evocativi («tasting like cigarettes and soda pop»; «flicking lighters just to fight the dark»). Su tutto l’idea che, nonostante gli anni d’oro siano andati, si è comunque rimasti, in qualche modo e forse fuori contesto, a quello stato adolescenziale: «let em know that we’re still rock’n’roll», comincia Rock’n’Roll, traccia di apertura; «yeah, whatever, we’re still living like that» si urla invece in Here’s to Never Growing Up, uno dei migliori singoli dell’anno. Alla faccia di chi non trova spessore nei testi di Avril.
Dopo questo brillante inizio (ignorerò qui, come ho sempre fatto, la ballata con il marito e frontman dei Nickelback, Chad Kroeger, Let Me Go, l’unica cosa davvero brutta dell’album) si susseguono alcune canzoni che mostrano la cantante canadese cimentarsi con sonorità leggermente diverse da quelle solite. Give You What You Like è una ballata dall’argomento finalmente maturo ˗ proprio quando ha appena detto di non volere crescere mai! ˗ in cui si racconta del do ut des di un rapporto, forse un solo incontro fugace, basato sul sesso («Please tell me I’m your one and only / Or lie, and say at least tonight»). Bad Girl è un scatenato pezzo rock che conta sulla speciale collaborazione di Marilyn Manson, che apre in maniera simpaticamente agghiacciante («Just lay your head in daddy’s lap, you’re a bad girl»). Hello Kitty è invece l’unica incursione in un territorio più prossimo a quello tenuto dal pop attuale. Si tratta infatti di un pezzo dance-pop, che si muove tra l’EDM, con tanto di bassone dubstep dei poveri, e il J-/K-Pop, insuperabilmente stupido e kitsch. Anzi ka-ka-ka-kawaii. Per questo assolutamente adorabile. MEOW.
Dopo questa breve deviazione, piuttosto imprevedibile, Avril rimbocca la sua strada e torna a cioè che le riesce meglio. You Ain’t Seen Nothing Yet avrebbe infatti potuto benissimo trovare posto nella seconda parte del coloratissimo e irresistibile The Best Damn Thing, il suo album migliore. Si tratta di uno scattante e allegro pezzo pop-rock dalla dizione intrigante su ardori adolescienziali («A first taste like honey, you were so yum / Can’t wait for a second cause it’s so fun») troppo simpatici. «So if you’re loving this / Just give me one more kiss / Cause you ain’t seen nothing yet». SMACK. Approviamo immensamente. Sippin’ on Sunshine è tutte le canzoni da spiaggia che vi vengono in mente ma fatte meglio. Commenti scanzonati («Boy you’re looking so fly / Hotter than July») e coretti vari. UIUIUIUH.
Un triste ma lieve la-la-la guida Hello Heartache, che rallenta il ritmo e abbassa il tono narrando la storia di un amore sbocciato per appassire («I was champagne / You were Jameson»), che crea il giusto contesto per le ballate conclusive, Falling Fast e Hush Hush, riuscite e delicate. Avril si conferma infine come l’unica in grado di rendere bene accette canzoni del genere anche tra questi lidi, tendenzialmente ostili ai lenti e finti sentimentalismi.
Certo, ormai tengono banco altre popstar e alcune di queste, Taylor Swift per esempio, prosperano sulle basi poste in passato da Avril, ma nessuna Taylor potrà mai dire kiss my ass! con la stessa faccia da schiaffi di Avril, perché lei è e rimane la vera e unica motherfucking princess. Dimenticate dunque i Bangerz, i Prism o, peggio ancora, gli Artpop vari, perché Avril Lavigne è l’album pop dell’anno.
Luca Amicone
Redazione musicale