C’è stato un tempo, nell’oramai lontano 2010, in cui nessun abitante della Terra dotato di un qualche tipo di mass-media (tv, radio, giornali, piccioni viaggiatori), sia riuscito a scampare dal bombardamento mediatico riguardante lo scandalo WikiLeaks. Ora, alzi la mano chi, al tempo, di tutto sto baccano non capì assolutamente niente. Ebbene sì, l’alzo anche io. L’unica cosa che sono riuscita a capire in tutti questi anni è che c’era quest’uomo, tale Julian Assange -tipo strano dall’aspetto un po’ albino, un po’ psicotico – che era riuscito a entrare con l’uso di un solo pc, nei software più segreti dei governi mondiali, per poi spiattellare sul suo sito, WikiLeaks appunto, tutti questi file apparentemente irraggiungibili. Altra cosa che arrivai a comprendere, era che tutti i pezzi grossi che contano, appena appresero della notizia si arrabbiarono di brutto. E quando gente così si arrabbia, la produzione di un film su uno scandalo del genere diventa inevitabile.
Detto fatto. Il 24 ottobre è uscito anche nelle sale di tutta Italia Il quinto potere (The fifth estate nella versione originale), titolo da non confondere con quel capolavoro che è Quarto potere di Orsono Welles. La pellicola diretta da Bill Condon, reduce dai capitoli finali della saga di Twilight, cerca di spiegare nell’arco di due ore, come uno sconosciuto informatico tedesco, tale Daniel Domscheit-Berg, sia finito non solo a lavorare con Assange, ma a diventarne il braccio destro, aiutandolo nell’impresa di scovare e pubblicare, tutti quegli oscuri segreti che le potenze mondiali (USA in primis) hanno sempre celato dietro la facciata del buon governo. Questa pubblicazione culminerà con i cablogrammi e i resoconti riguardanti la guerra in Afghanistan del governo americano nel 2010, evento talmente clamoroso da distruggere la stessa organizzazione interna del sito e renderlo quello per cui è conosciuto oggi, ossia il nemico dei principali governi del pianeta.
Sulla carta dunque il film si presentava bene; finalmente gente non particolarmente ferrata con l’informatica (tipo me) avrebbe avuto la possibilità, grazie a questo film, di capire qualcosina in più sullo scandalo che tanto ha infiammato testate e produzioni televisive di mezzo mondo. Invece niente; dovremo ancora fluttuare nell’oceano dell’ignoranza, visto che Il quinto potere non solo non porta ordine in questo intricato mondo chiamato Wikileaks, bensì riesce ad aggiungere ancor più nodi e dubbi a questa storia di per sé già molto contorta. Vi sono stati film in passato che già avevano trattato il mondo dell’informatica, della rete e dei geni che vi stanno dietro; un esempio fra tutti The social network. Si trattava però di film, in cui il filo del discorso poteva essere ben seguito anche da quella massa di spettatori, che a malapena si orientano con parole del tipo “giga-byte”, “desktop”, o “cartella condivisa”. Nel caso di Il quinto potere invece, perdersi è un attimo e riuscire a capire il perché un evento è susseguito da un altro è un’impresa da veri cervelloni. Se a tutto questo mondo fatto di algoritmi e formule strane, ci aggiungiamo pure quello dell’uomo depresso, reduce di un passato difficile, (Assange ovviamente) beh, allora sì che la pesantezza del film diventa davvero insostenibile.
Insomma, Il quinto potere ruota intorno ad una delle storie più importanti di questi anni senza diventare cinema nella maniera che meriterebbe. Peccato perché gli attori, soprattutto lui, quel Daniel Bruhl capace ancora una volta dopo Rush e I bastardi di Tarantino di offuscare gli attori protagonisti (in questo caso un Benedict Cumberbatch che alla lente di Sherlock ha preferito i capelli ossigenati alla Legolas), erano ben calati nei personaggi e convincenti; ma si sa, una buona interpretazione, per quanto illuminante e impeccabile possa essere, non sarà mai in grado di salvare una sceneggiatura troppo intricata e dispersiva. Non salvano dal fallimento nemmeno quei guizzi registici geniali disseminati qua e là nel film, come la cinepresa che non perde mai d’occhio i propri personaggi, riprendendoli sempre molto da vicino con primi o primissimi piani in modo da scrutare e captare cosa nel loro mondo interiore stia avendo luogo; oppure quella sorta di montaggio parallelo, dove una scena apparentemente normale, viene seguita da una che la emula con la sola differenza che quest’ultima sta avendo luogo in un ufficio freddo e quasi spoglio: esso non è altro che la rappresentazione metaforica degli stati d’animo dei protagonisti, e il fatto che siano sempre circondati dai computer mostra la loro oramai dipendenza da questo oggetto chiamato “computer”.
Non si capisce alla fine quale segno o messaggio Il quinto potere voglia lasciare nello spettatore: è un film denuncia? È un film d’accusa? È un mal riuscito film biografico? Per me, sinceramente, rimane solo un film delusione.
Elisa Torsiello per Radioeco