Venga il regno è il disco italiano dell’anno. Fine recensione.
Basterebbero davvero queste due righe per descrivere l’ultima fatica dei Virginiana Miller. Un disco che si pone come il punto massimo della loro produzione e li consacra, se ce ne fosse ancora bisogno, come uno dei migliori gruppi italiani.
Lontani da ogni catalogazione, refrattari da ogni appartenenza a qualsiasi sedicente “scena musicale”, nel corso degli anni la band labronica si è ritagliata una nicchia considerevole di estimatori: dai critici ai colleghi, al pubblico che non ha mai fatto venire meno l’affetto che lo lega alla band. Purtroppo gli attestati di stima non sono bastati a far raccogliere ai Virginiana Miller il meritato successo e la giusta visibilità, vuoi per una proposta musicale come già detto avulsa da una facile catalogazione, vuoi per testi sicuramente non facili e immediati, ma che hanno bisogno di attenzione per coglierne a pieno tutta la portata letteraria.
In Venga il regno i Virginiana Miller trovano un’armonia e un equilibrio perfetto. Il sesto disco in studio del gruppo livornese è più accessibile e maggiormente fruibile rispetto ai precedenti lavori, ma questo non è da intendersi come un impoverimento artistico o un compromesso, anzi: siamo di fronte a una maturazione e una presa di coscienza da parte di una band che sa cosa vuole e sa come muoversi per ottenere il miglior risalutato, sorpassando i propri limiti.
Venga il regno ci offre undici canzoni, tra le più belle dell’intera discografia del sestetto livornese, undici perle che vanno a toccare molteplici temi, sempre con quello spirito lucido di osservazione della realtà quasi antropologico: l’amore con le sue contraddizioni, la vita con le sue derive, l’Italia e la sua storia, filtrata attraverso il passato e restituita alla contingenza.
Due apre il disco. Immagini passano in sequenza come fosse un film in canzone: due amanti su una panchina, la felicità che sembra accarezzarli ma che ben presto scopriamo solo essere un effimero sogno, non appena qualcosa in uno di loro si rompe. «La felicità è una cosa degli altri» canta Simone Lenzi, quella stessa felicità che qualche anno prima passava vicino e si arrendeva al panorama (Placenta, da Italia Mobile, 1999). I sentimenti, la felicità, la caducità delle condizioni umane. Il ritmo è martellante e ci trascina nel susseguirsi delle immagini.
Anni di piombo è il capolavoro del disco e si candida per essere forse la più bella canzone dei Virginiana Miller in assoluto. Uno dei periodi più bui e dolorosi della nostra storia nazionale è reso attraverso il dolcissimo racconto di un uomo (Aldo Moro) che si rivolge alla moglie durante un viaggio in autostrada rassicurandola sul fatto che niente di brutto potrà accadere, e che tornerò presto a casa: l’intimità delle parole s’intreccia con la rievocazione delle paure di quegli anni. La canzone è struggente, l’arrangiamento si apre con il susseguirsi delle parole, e sembra quasi di poterlo vedere quest’uomo che ritorna alla serenità della vita familiare, lasciandosi dietro di sé la scia di sangue e la paura, riscrivendo ciò che la storia gli ha negato dolorosamente. C’è Aldo Moro su quella macchina, c’è una nazione intera su quel sedile insieme a lui, ci siamo noi: c’è la consapevolezza che niente è stato più come prima, dopo quello che è uno dei punti più bassi della nostra storia nazionale. Un pezzo semplicemente memorabile.
Una bella giornata si apre fiduciosa alla vita, un inno al riscatto, al non mettere la testa sotto la sabbia e reagire. Sentimenti di fiducia e ottimismo che contraddistinguono anche Tutti i santi giorni (David di Donatello per la colonna sonora dell’omonimo film di Paolo Virzì, tratto dal romanzo di Simone Lenzi La generazione), un invito a riuscire a trovare il bene insieme nelle avversità della vita.
Lettera di San Paolo agli operai è un altro dei vertici del disco. La scrittura di Lenzi si carica d’immagini e accostamenti geniali, tra Berlinguer e Pink Floyd, fino a passare al partito comunista. Onirica nel suo incedere. Uno dei vertici del disco e di Lenzi come autore.
L’amore è il fulcro della raffinatissima Pupilla e di Effetti speciali: due canzoni che parlano di sentimenti senza però scadere in stucchevolezze, ma anzi dando risalto alle piccole cose, alla quotidianità e alla semplicità dei gesti tralasciando facili idealizzazioni.
Oltre al bene c’è anche il male però: Dal blu ci cala in territori vicini alla depressione, con chitarre in primo piano e batteria a picchiare, deliziandoci con una pausa strumentale a metà canzone semplicemente deliziosa. Nel recinto dei cani invece è il ritratto di un’umanità alla deriva, una fauna di esseri persa sul “Lungomai di Livorno” senza obiettivi e senza mete, una borgata Cèliniana dove uomini e bestie si confondono tra loro, recidendo il guinzaglio tra padrone e cane, tra chi porta a spasso l’altro.
Le conclusive Chic e L’eternità di Roma sono due aspre critiche all’Italia dei giorni nostri attraverso i suoi due poli metropolitani. La seconda chiude nel migliore dei modi il disco, una canzone che in quattro minuti racconta alla perfezione ciò che Sorrentino non è riuscito a fare in due ore e mezzo nella Grande Bellezza: la decadenza morale e dei costumi dei nostri tempi, la dubbia santità e il pressapochismo, la cialtroneria, l’individualismo prevaricatore, i fasti di uno splendore che riecheggia solo nei libri di storia e che oggi è solo lo sfondo di un regno allo sfascio.
Un disco importante. Un disco di canzoni pop nell’accezione più alta del termine. Musica popolare che può colpire tutti, facendo riflettere ed emozionare. Tutto questo è Venga il regno.
Circoncidetevi il cuore nel petto e apritevi al vento…
Giacomo Perruzza
Redazione musicale