Non so perché, ma ogni volta che mi appresto a guardare un film che abbia a che fare con gare di auto e/o moto, mi vengono in mente le parole pronunciate da Saetta McQueen nella frase iniziale di Cars: “Velocità, io sono velocità”. Forse perché alla fine è questo che ci si aspetta da un film dove macchine, olio e motore la fanno da padrone: ci si aspetta velocità e adrenalina pura. Eppure la sensazione che ho provato uscita dalla sala dopo aver visto Rush, ultimo capolavoro firmato da quel geniaccio (ex) pel di carota che si chiama Ron Howard, è stata quella di aver assistito a molto più che un semplice film sulla Formula 1.
Giro dopo giro, gara dopo gara, anni dopo anni, Howard ci accompagna a scoprire il rapporto di amicizia/inimicizia, che ha legato per ben più di sei anni due, che della categoria maggiore delle gare automobilistiche, hanno fatto storia: Niki Lauda e James Hunt. La storia del primo, chi è un vero tifoso della Ferrari, la sa a memoria quasi quanto un’Ave Maria. Per i meno appassionati, forse Lauda è ricordato per il terribile incidente avvenuto a pochi giri dall’inizio del gran premio di Germania, corso nel maledetto circuito di Nürburgring, e che lo ha visto coinvolto in un incendio che investì la sua autovettura, lasciando il suo viso in preda alle fiamme, ustionato e con segni indelebili. Il secondo forse è passato agli annali della storia, più per la vita sregolata fatta di sesso, alcool, droga e pappagallini, che per le vittorie in Formula1, nonostante un campionato lo abbia vinto; e lo ha fatto proprio in quel 1976, quando Lauda rimase assente dal mondo della pista per un paio di gare per sottoporsi all’operazione chirurgica che gli avrebbe donato un aspetto, se non uguale a prima, perlomeno tale da sostenere l’incontro con gli sguardi degli altri.Per chi proprio dei due campioni non sappia nulla – forse perché troppo giovane, o forse perché non amante di questo mondo affamato di adrenalina, dove a far compagnia ai piloti nella loro monoposto c’è sempre lei, la signora con la falce (ergo la morte) – ecco corrergli in soccorso Ron Howard, pronto a colmare, grazie a Rush, queste lacune.
Bellissima la regia di Ron Howard, ma di questo non ci si deve più sorprendere. Si rimane veramente estasiati dalle scelte di regia messe in atto da questo grande del cinema contemporaneo, per infarcire la sua ultima creatura di un retrogusto vintage, qualcosa di consumato, ritrovato in qualche archivio televisivo, e riproposto sul grande schermo. Sto parlando ovviamente, non solo di tutti quei rallenti che, nella quasi immobilità, riescono a suggerire, in maniera quasi ossimorica, il senso d’adrenalina e velocità scaturito dalla macchina da corsa, ma anche di tutti quei colori un po’ sbiaditi e soffusi, che sembrano volerci catapultare indietro nel tempo e farci rivivere, come se stessero accadendo di nuovo, tutti quegli eventi che hanno permesso a Hunt e Lauda, di riservarsi un posto nella storia. Tutto profuma di quell’epoca; come già era successo per Frost/Nixon, niente è lasciato al caso. Perfino i vestiti (compresi quegli improbabili e imbarazzanti pantaloni a zampa di elefante indossati dagli appartenenti al genere maschile) sono stati studiati nei minimi dettagli, proprio per rimarcare questo senso di flashback, per farci vivere (o rivivere per chi era già nato a quei tempi) episodi a cui non abbiamo potuto assistere, e farci conoscere, in maniera più intima, più profonda, chi realmente erano Lauda e Hunt, dimostrandoci che dietro ad ogni grande e sincera rivalità, c’è sempre un grande e profondo legame fatto di rispetto e ammirazione.
Il regista americano, riesce a concentrare nell’arco di due ore, sei anni di onorata rivalità tra Lauda e Hunt, lasciando da parte la cronaca sportiva, per indagare a fondo la psicologia, le paure e i momenti di gioia dei due protagonisti, posti sotto la lente indagatrice della macchina da presa come uomini, non sportivi. Non che le gare non la facciano da padrone; esse sembrano piuttosto dei pretesti per mostrare ai propri spettatori cosa accadeva dietro le quinte di ogni sfida, in un’epoca in cui non vi era un gran premio che non si concludesse con un incidente di grave, o che molte, troppe volte arrivava a concludersi con la morte di un concorrente. Ecco dunque che Ron Howard ci mostra Hunt – interpretato da quel gran bel ragazzuolo di Chris Hemsworth il quale, svestitosi dei panni di Thor, si dimostra anche un ottimo attore – che prima di ogni gara si ritrova a rimettere a bordo pista per la troppa tensione; oppure Lauda – l’eccellente Daniel Bruhl, che è riuscito a dimostrare a chi avesse ancora qualche dubbio, quanto talento egli abbia da offrire – che impaurito e preoccupato per le condizioni della pista dopo il nubifragio che ha inondato Nürburgring, quasi come investito da un forte presagio, cerca in tutti i modi di far annullare quella gara che da lì a poco, segnerà, oltre che il volto, la sua intera vita e carriera.
Tutto ciò sta a dimostrare quanta paura, preoccupazione, timore di non arrivare vivo e vegeto alla bandiera a scacchi, si celasse dietro a quei sguardi spavaldi di due giovani rivali; sentimenti e incubi che però, magicamente, una volta chiusa la visiera del casco, si tramutano in voglia di dimostrare all’altro il proprio talento , la propria voglia di vincere e, diciamocelo pure, di fare al proprio avversario, il cosiddetto “mazzo”.
Tanto di cappello dunque, anche a Peter Morgan, già sceneggiatore di capolavori come The Queen (Stephen Frears, 2006) e Frost/Nixon dello stesso Howard, il quale riesce nell’intento di commuovere e, allo stesso tempo, strappare qualche sorriso allo spettatore, regalandoci dialoghi che ben aiutano a inquadrare le personalità e le diverse mentalità dei due protagonisti: più serio, edito al proprio lavoro, freddo, tanto da risultare scontroso e presuntuoso, Lauda; scherzoso, amante della vita e di tutti i vizi immaginabili e possibili, più interessato a piacere a tutti più che a interessarsi del suo ruolo nel mondo delle gare, (tanto da non rendersi conto delle enormi capacità da pilota di cui era dotato), Hunt.
Si può dunque affermare di aver trovato un valido concorrente per la corsa al titolo di “Miglior film dell’anno” ai prossimi Oscar. I responsabili dell’Academy Awards, ci scommetto, si staranno già sfregando le mani. E in questo caso, non posso che dargli pienamente ragione.
Elisa Torsiello per RadioEco