Prima nazionale per uno spettacolo che, nonostante la vaghezza del setting, perfetta per ricreare la sospensione tipica del racconto d’infanzia, si colloca temporalmente con estrema precisione.
Il 13 giugno 1981 tutta l’Italia a reti unificate, con la partecipazione straordinaria del presidente Pertini, si raduna tra Roma e Frascati per assistere al record di nascondino mai totalizzato, al cospetto di un introvabile campione del mondo, che tanto si è allenato per compiere quella grande impresa d’astuzia, di affettuosa ribellione nei confronti “dei grandi”, della nonna che sempre lo riusciva a scovare, dell’amico Massimiliano Ruberti, esperto giocatore dalle mille risorse.
Alfredino ha sei anni e trangugia il suo gelato contando le leccate, proprio come quando accosta la fronte al muro per contare i secondi entro i quali i compagni di gioco dovranno rimpiattarsi a dovere per sfuggire al “cacciatore”.
Dall’amico più grande ha imparato la regola della resistenza: il buon giocatore deve trovare un luogo solo da lui conosciuto ed essere capace di non pensare a fame, freddo, cacca e pipì.
Il buon giocatore deve resistere per gli altri: egli è l’ultima speranza per quelli che non ce l’hanno fatta ad arrivare fino in fondo alla sfida come lui, nel suo grido “piomba libera tutti” c’è la quintessenza della liberazione dei compagni, che incitano l’ultimo rimasto mentre corre come un forsennato per toccare il muro per primo.
Alfredino dovrà essere a breve operato al cuore, nel frattempo sta escogitando la sperimentazione del nascondiglio perfetto, “il buco” con sopra la lastra di lamiera che punta da qualche tempo.
Si infila lì sotto e scorge il fratello passare, senza percepire minimamente la sua presenza.
La tentazione di interrompere la prova per il passaggio del carretto dei gelati e per l’imminente inizio dei cartoni animati in tv è forte, ma prevale la determinazione all’impresa.
Il tempo passa e le acque in superficie cominciano ad agitarsi, Alfredino sente che la violazione della sua tana è imminente, così decide di spingersi ancora più giù, ancor più lontano dai suoi ricercatori, e non si arresta di fronte alla fine del “buco”, si mette a scavare con le mani lateralmente finchè non raggiunge le “grotte dei conigli”.
Tra l’ammirazione e la paura, Alfredino scruta i leporidi dagli occhi rossi che abitano le profondità della terra, comincia ad avvertire i segni della stanchezza, ma si impone di resistere perché sta veramente totalizzando un tempo incredibile, che grandi e piccini applaudiranno.
La storia dei soccorritori che a turno si calarono invano, del presidente della Repubblica che non esitò ad accorrere sul luogo della disgrazia e delle 60 ore di tentativi andati a vuoto, costituisce un’inquietante pagine di cronaca italiana.
Per la prima volta milioni di persone seguono in televisione la tragedia personale della famiglia di Alfredino, a dispetto delle poche risorse tecnologiche che la RAI disponeva all’epoca, per la prima volta il dramma nella sua forma più privata, come la narrazione minuto per minuto della morte, è offerto ad uso e consumo del vasto pubblico e a distanza di anni si commemora la morte degli speleologi che hanno provato a salvarlo.
L’interpretazione che viene offerta da questa rappresentazione presenta un finale strutturato sulla forma della “morale della favola”: l’attore chiosa lo spettacolo rintracciando nella tragedia di Vermicino la fine della cosiddetta Prima Repubblica e il suo commento sottolinea come non si sia riusciti né a salvare il bambino, né, a trent’anni dall’accaduto, a salvare l’Italia, nonostante sia così massiccia la presenza di persone che si dedicano alla rappresentazione teatrale, sottintendendo un’aspra critica alla rappresentazione mediatica di massa.
Niente da obbiettare sulla presa di distanza dalla massificazione dell’informazione: da attenta lettrice di Guy Débord non posso che constatare il fenomeno di mercificazione e spettacolarizzazione che ha trasformato l’immagine, un tempo simbolica e “significativa”, in merce, da confezionare nelle vesti più appetibili.
Ho trovato un po’ troppo azzardata l’assunzione a punto di volta della data della tragedia come cambiamento di un paradigma politico, poiché se l’incidente del Vermicino di fatto può aver costituito un antecedente, la creazione del format e la diffusione del know-how di un certo modo di utilizzare il mezzo televisivo coincide con un altro infausto anno, il 1994: la politica si trasforma in somma di desideri proprietari, perciò sponsorizzabili come un qualunque brand attraverso la televisione. Dalle piazza come arena del dibattito pubblico ai piazzisti del tubo catodico che entrano nella sfera del privato.
In secondo luogo, penso che l’arte costituisca un strumento di cambiamento sociale tra i più potenti, ma la sua capacità di rivolgimento, di messa in contraddizione dell’esistente e di ribaltamento del paradigma esistente per quel che riguarda la fruizione dell’informazione e della cultura in genere, debba essere tramutata in azione dando fuoco alla miccia dell’engagement.
La determinata volontà quotidiana di narrare il sommerso o di riconferire ineffabilità al tragico farà sì che la famiglia di un altro, impavido Alfredino possa piangere il figlio dietro gli scuri domestici, che il piccolo schermo non sia più un ingorgo di vittime e carnefici che spiegano le loro ragioni, che nessuno si faccia mai più riprendere da “La Vita in Diretta” nella disperazione del parente perduto.
Un teatro impegnato e dissidente contro la morte dell’animo e per un diritto “privato” alla morte.
Francesca Gabbriellini
>>> Qui tutte le foto della nostra Michela Biagini.