La prima toscana di Noosfera Museum, prodotto dalla compagnia Fortebraccio Teatro, si svolge in un angolo sopraelevato del castello di Lari, una piccola piazzola erbosa da cui si potrebbe godere di un’ottima vista su tutte le colline, se non fosse già calata la sera; l’imbrunire non ci impedisce però di notare un dettaglio altamente antropologico che per un attimo distrae dal momento artistico che stiamo attendendo: un’enorme piscina sul tetto di una casa poco distante.
L’interprete, Roberto Latini, si aggira per il fazzoletto di terra rischiarato da una fioca luce ambrata, facendo tintinnare l’ampia giacca ricoperta di chiavi. Dal momento in cui la toglie incomincia un caotico monologo, una costante sfida alla paratassi senza soluzione di continuità, fatta di rivendicazioni di leggerezza dell’essere, di ingresso e uscita da una dimensione di cui non cogliamo l’entità, lo stato confusionale di un viaggiatore che ha promesso l’imminente ritorno alla sua amata.
Il personaggio si pulisce il sangue di ferite interiori con delle bende sfilacciate, la musica di sottofondo sembra fare da controcanto all’andamento del vago discorso, ora più indulgente, ora più irruenta. Perpetrando un’inquietante incoerenza semantica, il personaggio raccoglie del terriccio da alcuni mucchietti ai lati della scena con una ciotola e comincia a spargerlo, anche sopra di sé, come una questua all’incontrario, magnanima elargizione di polvere e ambiguità.
Una voce risuona fuori campo, ripete il discorso appena terminato dall’attore, che borbotta la falsità di quelle affermazioni, mentre si aggira tra il pubblico ripetendo i gesti sconnessi che aveva fatto quando le parole uscivano dalla sua bocca, la stessa camminata di uomo attonito, gli stessi movimenti quasi spasmodici degli arti.
Si innalza un fumo bianco che circonda il protagonista, maratoneta nella nebbia, mentre la voce narrante svela l’esistenza di un prezioso tesoro del quale non può rivelare il nascondiglio, il protagonista si affanna a scavare in più zone, invano.
Accenna poi qualche passo di danza su You Never Can Tell, più scoordinato di John Travolta in Pulp Fiction, e credo che questo sia stato il momento più illuminante e compiuto dell’opera per quel che riguarda l’afferrare incerto del suo significato: uno sprazzo di luce sulla volontà dell’attore di mettere in scena l’ineffabilità, la ripetitività senza sbocchi, ma in un certo senso consolante nei suoi irrisori mutamenti.
Infatti, al momento di rimettersi la giacca di chiavi, gli unici elementi nuovi sono un grembiule e un naso da clown, mentre allo spensierato brano di Chuck Berry si sovrappone la melodia inquietante delle fasi precedenti dell’opera.
Dopo un ulteriore girovagare, il protagonista si siede, di fronte a lui una sedia vuota che lo ospita ogni volta che offre da bere a se stesso, che parla con se stesso, senza che il discorso prenda mai una piega compiuta.
Si sono infatti spalancate le “porte dei pensieri a caso”, che assillano e si intromettono negli interstizi della razionalità come mendici intenti a chiedere l’elemosina.
Più rumorosi e determinati sono i “pensieri già pensati”, che bussano alle porte della mente; in questa metafora riecheggiano le parole di Bertand Cantat dei Noir Désir quando canta «di questi profumi dei nostri anni trascorsi, che possono tornare a bussare alle porte».
E poi l’impenetrabilità dei pensieri altrui.
Meglio berci su.
Francesca Gabbriellini
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