La serata di lunedì 22 luglio riunisce me e Flavio alla volta del Festival Collinearea, che già lo scorso anno ha saputo riempirci gli occhi di spettacoli di grande levatura e rinfrescarci le membra grazie ai freschi venti che battono la collina del castello di Lari.
Proprio di fianco al teatro, allestito presso un suggestivo belvedere sulla natura che circonda il paese, troviamo il palco del primo spettacolo di questa sera Macaron – Causa maltempo la Rivoluzione è stata posticipata a data da definire, titolo del quale riuscirò a cogliere il significato solo grazie all’aiuto dello stesso interprete e regista dell’opera, Simone Perinelli, che assieme all’aiuto regista Isabella Rotolo e allo scenografo Leonardo Vacca costituisce la compagnia LEVIEDELFOOL.
Già impegnata nella riflessione su un’ipotetica tripartizione dei significati dell’essere, esplicitata nello spettacolo Requiem for Pinocchio, la compagnia si esibisce stasera nella prima del secondo atto di quest’analisi.
Macaron tocca il tema della r-esistenza, intesa come presa di coscienza determinata dell’obbiettivo da perseguire e l’Odissea verso di esso, disseminata di avversità, con un Ulisse che nel 2013 potrebbe chiamarsi Michele, potrebbe vivere a San Vito lo Capo e dirigersi attraverso mille peripezie mentali verso l’agognata meta della realizzazione artistica, in continuo reinventarsi e reinventare, perire e ripartire, come Super Mario alla rincorsa della principessa.
Un viaggio che 3199 anni fa vedeva protagonista Odisseo, l’uomo dal multiforme ingegno, spedito all’Inferno qualche migliaio di anni dopo per aver spiegato le ali al folle volo oltre le colonne d’Ercole e aver sfidato i limiti della conoscenza umana.
È proprio con le parole del canto della Commedia che si apre lo spettacolo, le mani del protagonista descrivono nell’aria le lettere della celebre sentenza “Fatti non foste a viver come bruti…”, le sue ginocchia affondano lievemente sulla sabbia distesa, quella della riva su cui Ulisse approda, la stessa che Michele versa sul suo terrazzino per ingannarsi di essere sulla spiaggia, con sommo stupore di Veronica, la ragazza che ha conosciuto in queste giornate di fine estate.
L’attore indossa una maschera di maiale, la musica di sottofondo è un mischiarsi di voci che ricordano alla lontana l’intro di Black Market dei Wheater Report, una miscellanea che assume tratti sempre più metallici fino ad assomigliare a quella proveniente da un altoparlante, per poi svanire e fare spazio al tonfo sordo e pieno della palla da tennis, che il “maiale” segue con la testa, finto arbitro di un set inesistente.
Dall’impianto esce Is There Anybody Out There?, la maschera di maiale viene tolta e comincia il monologo, sapientemente condotto utilizzando l’ultima parola del discorso di Ulisse come incipit della dissertazione di Michele o Veronica.
Si descrive un brillante parallelismo tra Itaca e San Vito lo Capo, entrambe piene di uomini ingordi e assetati di potere, entrambe mete tanto ambite dai rispettivi personaggi, Ulisse perché è lontano da Penelope da dieci anni, Michele perché ha impiegato dieci anni per trovare casa nella cittadina.
Il gioco di rimbalzi, anticipato dalla finta partita di tennis, si dipana tra la grotta di Polifemo e le indicazioni per arrivare al negozio di souvenir “Polifemo”, la discesa all’Inferno per interrogare Tiresia e le insinuazioni di Veronica sull’inferno personale di Michele, incapace di dipartirsi dalla sua “Circe”, che altro non è che la claustrofobica casa dove ogni giorno conduce una vita di non-attività.
Veronica, si sa, è riuscita a ritagliarsi ampio spazio nel mondo dello spettacolo, si destreggia alla perfezione tra lavoro sul testo e interpretazione, controllo del diaframma e della voce; del resto, occorrono un sorriso smagliante e un’impeccabile dizione per pubblicizzare l’Estathé.
Michele immagina, di contro, come sarebbe lavorare in una ciclofficina, a contatto col pragmatismo, con la concretezza dell’aggiustare e del costruire, senza mediazioni e sovrastrutture volte soltanto a illudere il giovane artista di poter campare con l'”immateriale” da lui forgiato.
Sulle note di una struggente Where Is My Mind interamente suonata al piano, alla fine Ulisse rimane solo nel viaggio verso Itaca, poiché i compagni hanno mangiato le vacche del Sole in Sicilia; lo stesso Michele rimane solo a San Vito lo Capo; di Veronica, partita per Parigi verso le luci della ribalta e verso un nuovo impresario pronto a comprendere la sua “bravura”, gli resta solo una foto salvata con titolo “Macaron”, proprio come il nome del famoso dolcetto francese, emblema e suggestione sensoriale di un “altrove” evanescente, per il quale si è disposti a r-esistere, à tout prix.
Applausi a iosa, nella speranza di poter vedere sulle scene il terzo atto di questa catabasi nell’esistenza umana, che con un numero esiguo di props e scenografia si propone al pubblico con una carica di realismo, stemperato dal richiamo del mito omerico, solo parzialmente narrabile a posteriori.
Il secondo spettacolo è presentato dalla compagnia Teatro dei Venti e s’intitola Tremori: la compagnia modenese ha condotto uno studio sui territori colpiti dal sisma che si è abbattuto sull’Emilia, non tanto per indagare le ragioni che hanno portato a un così alto numero di vittime o le ripercussioni economiche e umane dell’avvenimento oppure per ipotizzare modalità alternative di ripresa: fulcro della rappresentazione è il prima, ovvero mettere in scena che cosa ha impattato il terremoto, quale tipo di società, quale tipo di prospettiva di vita si era già radicato in seno ai giovani, alle giovani coppie in particolare, quali esistenze erano intente a portare avanti.
In scena un allegro banditore annuncia i fantastici eventi della Festa Democratica, con tutti i suoi cliché e le sue velleità maggioritarie, ben rappresentate dalla pomposa costruzione tricolore portata sulla scena da una ragazza, traballante per il peso delle menzogne di un partito ormai in mano al proprio curatore fallimentare.
Il sisma arriva nella vita di due coppie che conducono delle miserabili vite sempre uguali, caratterizzate dall’aspetto edonistico della cura del corpo, che invade da sempre la regione con la grande fiera del fitness di Rimini, dalla produttività inarrestabile degli stabilimenti, che a dieci giorni dalla prima scossa di terremoto sono ripartiti senza indugio e quindi erano pieni di lavoratori all’arrivo della seconda, orribile scossa. Infatti prima che le coppie si rendano definitivamente conto della gravità della situazione “si fanno cadere addosso” un gran numero di calcinacci, continuando a condurre meccanicamente i soliti gesti, concedendo i soliti, freddi abbracci.
Nessuno parla durante tutta la lunga scena, viene però diffuso un montaggio di servizi radiofonici e televisivi che ripercorre i tragici momenti del sisma e concorre ad evidenziare l’accento che tutti mettono sull’interruzione della produzione industriale, e un medley di musica tipicamente da palestra. Il finale vede un alto prelato dalla voce strozzata recitare una parte dell’Atto di dolore, per poi mettersi a danzare, arzillo e incurante.
Al di là di un’esecuzione che personalmente non ho ritenuto particolarmente espressiva ed esaustiva del grande lavoro preparatorio a questo spettacolo, trovo che sia stato davvero acuto provare a far riflettere su che tipo di società questo evento si è andato ad innestare, provando a ridestare non solo il mero assistenzialismo verso la popolazione, ma anche la volontà di ricostruzione dal basso di presupposti politici e sociali diversi da cui ripartire.
Francesca Gabbriellini
>>> QUI tutte le foto di Macaron e QUI le foto di Tremori scattate dal nostro Giuseppe F. Pagano