Il Primo Ballo del Festival Collinarea 2013 si è tenuto in una location particolarissima, di recente apertura, preziosa e, al tempo stesso, scopriremo solo parzialmente adatta ad accogliere questa serata inaugurale, almeno dal punto di vista tecnico. Appena arrivate, rimaniamo incantate dalla vegetazione lussureggiante attorno alla tenuta di Torre a Cenaia, incorniciata da punti luce dorati in filari di lampadine sospese, che di lì a poco diventeranno il fascino dell’ambientazione e l’incubo della nostra fotografa.
Dieci distinti signori elegantemente vestiti, à la manière dei complessi d’altri tempi, cominciano a stagliarsi dietro il palco – dico “stagliarsi” e non “scorgersi” perchè il palco è issato esattamente all’altezza del pubblico, altro dato tecnico che renderà la realizzazione di questi contributi comprensiva di gomitate e discussioni con avventori poco educati – e i loro volti, segnati dagli stenti e dal disgregarsi della comunità da cui provengono, sono radiosi alle prime luci del riscatto.
Le prime sensazioni alla vista di questi signori, ai quali si unisce un coraggioso under 40, sono uno slancio ancestrale verso il loro collo, con la naturalezza con la quale abbracceresti un nonno prima di chiedergli di giocare a carte con te, e contemporaneamente l’accendersi di una curiosità squisitamente antropologica verso i miti di un’epoca che tu non hai vissuto, dei quali vorresti conoscere vita, morte e miracoli, per riversarli in un film.
Galeotto fu l’ufficio postale, di fronte al quale si incontravano questi signori, alla stregua difesa della magra pensione, per poi cominciare a suonare quando arrivava l’agognato versamento.
Non è forse la fotografia di un film di Salvatores?
Intorno alle 22.45 i Buena Vista Social Club dell’Alta Irpinia si dispongono sul palco, montato a ridosso di un fondale di poco pregio, con addirittura le telecamere del casolare a vista, e imbracciano gli strumenti: comincia lo spettacolo della Banda della Posta.
Mecenate e produttore di questa avventura che parte dalle rive dell’Ofanto, da Calitri, il paese col gonfalone dalle tre rose, è Vinicio Capossela, artista naturalmente avvezzo al recupero della musica popolare, che durante tutto lo show saprà miscelare sapientemente i brani della Banda con i suoi, senza prevaricazioni, anzi, rimarrà scontento qualche avventore per non aver potuto ballare Ballo di San Vito.
Dopo un primo brano sulle note della Corrida di Francis Cabrel e un classico valzer, Capossela sale sul palco, di bianco e scarpe a punta vestito, e dedica a tutte le donne Con una rosa. Tutte le ragazze cominciano a cantare e ad abbracciare i rispettivi accompagnatori, in particolare la ragazza dietro di me si lancia in arditi gorgheggi dallo spiccato accento fiorentino.
Michela abbraccia l’obbiettivo della sua Nikon per proteggerlo dai movimenti scomposti e bruschi di un tizio. Io abbraccio un bicchierone di birra che gentilmente mi passano due care amiche, che evidentemente hanno colto il mio disagio, compressa tra coppiette e ominidi di poca grazia.
Intermezzo: poco prima dell’inizio del concerto io e Michela abbiamo avuto modo di parlare con i ragazzi dello staff che hanno il compito di arginare la folla festante di fronte al palco, che per l’occasione non è stato transennato per permettere un contatto maggiore tra musicisti e pubblico.
Come avevano pronosticato, è impossibile evitare la calca di fronte alla cassa spia, in serio pericolo.
Vinicio introduce e canta Che coss’è l’amor, si moltiplicano gli amoreggiamenti e lo sgranare dei bassi dell’impianto: a fine concerto eleggeremo a postazione migliore per l’acustica il fondo della piazzetta che ospita lo spettacolo.
Subito dopo omaggio a Celentano: Si è spento il sole. La ragazza accanto a me spegne invece la magia, con un canto pari a quello di un anatroccolo strozzato.
Segue un pezzo totalmente strumentale, dove in primo piano ci sono i mandolini, a seguire Vinicio prende la chitarra per un brano dal gusto western.
Capossela riprende in mano il microfono per un secondo omaggio musicale, questa volta a Adamo, cantando La notte: i meno giovani si accendono e snocciolano tutta la loro sapienza senza sbagliare una parola; dopo un suadente passaggio di mazurka e di paso doble ancora una canzone in ricordo di un grande artista italiano: Manuela di Rocca Granata. Nell’udire la presentazione di questo brano ricordo con affetto quando mio nonno mi cantava “Marina, marina, marina”, mentre mi portava in bicicletta sul lungomare, canzone dello stesso autore.
I canti di Matteo Salvatore, cantore dello sfruttamento latifondista del sud d’Italia, i balli apotropaici tradizionali, che appena dopo aver risvegliato un certo sentore mortuario lo mettono celermente a tacere con l’energia delle danze, danze da festa di nozze, serenate di mutuo amore e d’ingiurie: questo “meedley dai PIGS”, come lo descrive lo stesso Capossela, costituisce la seconda parte della serata, che termina dopo mezz’ora di bis, dopo l’inno all’amore di Ovunque proteggi, dopo molte altre danze di repertorio.
Molto più di queste poche parole potranno raccontarvelo le splendide immagini catturate da Michela durante la serata, poichè proprio per la facilità con cui questo evento sarebbe potuto diventare parte di un lungometraggio, sono le facce, le guance arrossate, le dita veloci sugli strumenti, le perle di sudore che scendono dai cappelli e inumidiscono le camicie, questi dettagli fisici e fisiologici sono quelli che riescono a raccontare l’emozione della serata.
In terra toscana sono state trapiantate, per una notte, le radici di una terra campana che ci insegna come si arriva a cent’anni senza accorgersene, come si tiene viva la quintessenza di una tradizione destinata all’oblio del tempo, di sintetizzatori e compressori: la Banda della Posta inverte la tendenza, racconta una storia e si è quasi obbligati a seguirla attraverso la danza, che scaturisce in maniera del tutto spontanea, creando quel turbinio di copri e sorrisi di cui siamo state testimoni.
Francesca Gabbriellini
Redazione musicale
>>> Le foto della nostra Michela Biagini sono tutte QUI.