Ad appena un anno dall’uscita del precedente disco Valtari, i Sigur Ros tornano con un nuovo lavoro per certi versi sorprendente e spiazzante.
Dopo aver creato almeno tre capolavori di fila (Ágætis byrjun, (), e Takk) imponendosi come una delle più rilevanti novità musicali degli ultimi decenni, i Sigur Ros sembravano essere entrati in una fase di cambiamento che risentiva però di una certa confusione sulla direzione da prendere: Með suð í eyrum við spilum endalaust cercava di apportare leggerezza e una vena folk-pop nuova per il gruppo islandese, Valtari invece segnava un quieto ritorno alle origini, con sonorità post-rock, ambient e quelle atmosfere sognanti e malinconiche tipiche dei nostri, e che ne hanno decretato la fortuna in tutto il mondo.
Quando sembrava, insomma, che i Sigur Ros avessero intrapreso la strada del riciclaggio di se stessi, percorso certo non glorioso, ma di certo sicuro, contando anche sulle schiere di devoti fans worldwide, ecco invece il disco che non ti aspetti: Kveikur. Complice la dipartita dal gruppo dello storico tastierista Kjartan, gli islandesi più famosi del mondo tirano fuori il disco più rock ed energico della loro carriera.
L’apertura è affidata a Brennistein, il brano migliore del lotto: una cavalcata di quasi otto minuti contraddistinta nella prima parte da atmosfere industrial, buie e distorte, e una seconda parte dove i toni rallentano e si fanno più morbidi lasciandosi trasportare dalla voce eterea di Jonsi in un crescendo di ritmo. La title-track segue lo stesso andamento, oscura ed elettrica, distorta e ossessiva. Queste due canzoni sono il simbolo di una voglia di svolta verso nuovi approdi sonori finora mai esplorati.
Ritorna la serenità con Hrafntinna, dove la vera protagonista è la voce di Jonsi: un brano malinconico, dolce e leggero, ammaliante nel suo incedere quasi litanico. Ísjaki è la canzone più immediata e se vogliamo pop del disco, ma anche una delle meno convincenti; Yfirborð invece convince per il connubio di una base prettamente elettro sulla quale si adagia l’ennesima cavalcata vocale di Jonsi.
Stomur e Rafstraumur sono i momenti più gioiosi del disco, caratterizzate da quel suono e quelle atmosfere tipiche che hanno fatto la fortuna di canzoni come Hoppipolla. La conclusiva Var, tutta suonata al pianoforte, ci accommiata dall’ascolto immergendoci in un languido paesaggio islandese, malinconico, ipnotico e cullante.
Kveikur voleva essere un disco di svolta e lo è per metà: da una parte convince nelle sue virate elettroniche/industrial, lasciando emergere la parte più energica del trio islandese, dall’altra non aggiunge sostanziali novità proponendo una serie di oneste canzoni che però non aggiungono granché a quanto sentito in passato.
Un buon punto di partenza comunque per sperare in qualcosa di diverso in futuro. Noi rimaniamo qui in attesa di essere sorpresi.
Giacomo Perruzza
Redazione musicale