C’è una sottile differenza tra spreco di energie e fatica, e sta tutta nei dettagli di avvertire e gestire le proprie giornate. Il 27 aprile 2013, presso il The Cage di Livorno, mi è stata data l’ennesima lezione di vita: i Ministri, trio più uno (il buon F punto, turnista di fama storica e favilla silenziosa), alla cattedra.
Impegnati ancora oggi nel tour di Un passato migliore, quarto energico e innovativo risultato della band, i Ministri riuniscono l’Italia, dall’alto della loro milanese natività, tanto ironizzata, bistrattata e in fondo amata. Da Roma, a Bologna, passando per Livorno, e spingendosi fino ai meandri della mia Lecce, Messina e mille altri luoghi, troppo spesso dimenticati; la tensione dei loro muscoli è riverberata ovunque.
Devo essere onesta: pochi giorni prima della data nella città del porto, croce e delizia delle più divertenti conversazioni tra pisani mai origliate, avevo già avuto la fortuna di sentire l’odore della bomba artigianale di un loro concerto, a Bologna. E lì la conferma: un gruppo sempre e solo ascoltato in cuffia o nelle casse di altri supporti elettronici che dal vivo colma con il sudore, le urla e le risate quello che la traccia digitale a volte banalizza. E dunque forte di questa esperienza sensoriale, il bis nella patria adottiva era necessario.
Entrata al The Cage l’aria dei ragazzi del pubblico è facilmente riassumibile ed etichettabile – non sempre un’azione negativa –. Tutti avevamo impresse ideologicamente sulla fronte le frasi che in bianco segnano lo scorrere del video della loro Noi fuori («Mio figlio ha un problema / Mio figlio non sa perdere / Mio figlio è cattivo / Mio figlio ruba in casa / Mio figlio ha paura / Mio figlio non sa cosa fare…», e aggiungeteci tutte le peggiori previsioni di un genitore ai tempi della collera e della crisi).
L’attesa è scandita dalla cantautrice in arte Maria Antonietta, giovane chitarra acustica e voce svogliata direttamente sul palco da un brutto risveglio. Il pubblico la ascolta attentamente, mentre lei cattura con le sue espressioni anche gli alcolizzati delle ultime file. Parole confuse, sonorità essenziale, una parolaccia qua e là, ma tanta intensità.
E poi finalmente fuori. Impeccabili nelle loro divise già sporche e spiegazzate. Bellissimi nella dignità di chi sa che oggi non vale nulla, ma tanto vale provarci comunque. La scaletta è precisa, puntuale, sofferta e schizofrenica. I pezzi del primo album (I soldi sono finiti, 2006) sembrano provocare loro commozione e fierezza, nel vedere centinaia di ragazzi urlare a squarciagola testi nevermindiani («E anche se mi sveglieranno io li odierò perché mi sorveglieranno»); i pezzi del secondo album (Tempi bui, 2009) fanno ridestare gli animi di chi scandisce a chiare lettere: «Veramente vivo in tempi bui», come se non fosse già abbastanza chiaro, se è possibile passarmi il gioco di parole; i pezzi del terzo album (Fuori, 2010) fanno svenare chi da bambino e non solo mangiava la terra per capire qualcosa del mondo intorno che stava crescendo, e chi, nonostante l’università, la religione, il ragazzo e la ragazza, il calcio, continua a sentirsi fuori; i pezzi dell’ultimo album (Per un passato migliore, 2013) fanno ricordare che «dopo mille battaglie per far veder le gambe / Ora hai mete più alte senza far troppa strada o dover mettere le scarpe», è ora di svegliarsi e ricominciare a seguire La pista anarchica.
Davide Divi Autelitano, Federico Dragogna e Michele Esposito, nel realismo più crudo e quindi romantico che possiamo permetterci in queste città senza alberi, con l’ ultimo album hanno smosso qualcosa che ha sonnecchiato per troppo tempo: la voglia di Spingere. Le sonorità e la pesantezza di Mammut, canzone status di giornate passate a darsi troppa importanza e a dare poca importanza invece; la nostalgica canzone di vero amore Una palude; Le nostre condizioni, trasposizione in Italia dello spirito del No Future britannico dei lontani anni ’70; ed infine la radiosa realtà di Comunque. Verità scomode per una realtà fatta di poltrone e comfort.
E poi il concerto della fatica degli eroi si chiude con una sciacquata nel bagno di folla, a cui Divi, cantante e bassista del gruppo, non rinuncia mai, avendo fiducia dei ragazzi che lo guardavano da sotto il palco, ringraziando lui e gli altri musicisti della durezza delle loro parole. Il bel canto e Abituarsi alla fine sono le canzoni che meritano questo scenario, strepitate al microfono passato fra le mani di un pubblico bellissimo emozionato.
E se il passato migliore rimane quello fatto di ricordi, il presente ora è più pesante ed elettrico che mai, e necessiterebbe di far dormir male Cesare, come cantano in un loro vecchio brano. Nessun decreto salva Italia, solo accordi ruvidi e parole ghiacciate: eccolo il governo dei Ministri. Finalmente un gruppo politico, in quell’accezione amorevole e altruista in cui è nato questo termine.
Ritornata a casa, dopo aver affrontato la Livorno-Pisa con fide compagne di viaggio, il fruscio nelle orecchie del volume alto delle casse mi ha fatto addormentare, in uno stato di sazietà finalmente giovane, finalmente onesta.
E poi l’altra sottile e microscopica differenza tra i nostri ministri e quelli pescati da dentro un cappello, frutto di giochi di potere ed un po’ anche di giochi da tavolo (Monopoli o Risiko, scegliete voi): l’umiltà profonda di chi ama il proprio mestiere, di chi ama la propria fatica.
Agnese Caldararo
Redazione musicale