L’uomo che aveva picchiato la testa è tornato, e per l’occasione si è travestito da Famous Local Singer. Dietro questa maschera ovviamente sempre lui: Bobo Rondelli.
Il cantante livornese torna a due anni dal precedente L’ora dell’ormai con un disco che vede la partecipazione del fidato Orchestrino, che da qualche tempo lo accompagna nei live infuocati e pazzi che lo contraddistinguono.
Una collaborazione consolidata, quella tra Bobo e la brass band capitanata dal russo (ma ormai livornese d’adozione) Dimitri Grechi Espinoza, che definisce anche il suono del disco: brass&roll che si lascia andare ad atmosfere swing, blues, jazz, fino ad approdare a lidi vicini a ritmi afro-cubani e balcanici.
Un disco fortemente ritmato e maledettamente divertente che lascia da parte (ma non esclude del tutto) i momenti più intimi che caratterizzavano i due album precedenti, sfogando tutta l’energia e la carica dirompente del cantante livornese, imprevedibile istrione, capace di spaziare tra toni scanzonati e momenti malinconici e riflessivi.
Il disco si compone di tre pezzi riarrangiati dal repertorio di Bobo, otto inediti e due cover d’annata di Adriano Celentano: Il bimbo sul leone e 24 mila baci.
La prima cover apre il disco, una canzone che Bobo suona live ormai da qualche tempo, e che finalmente trova il suo giusto approdo su disco. 24 mila baci invece è un esperimento riuscitissimo di rielaborazione di uno dei capisaldi della tradizione musical-popolare italiana che ritrova nuovo smalto grazie ad un arrangiamento che richiama certe tipiche sonorità alla Goran Bregovich.
Tra le canzoni riarrangiate spicca La marmellata, che si carica di sfumature melodiche nuove rispetto alla versione originale; ma è nelle canzoni inedite che il lavoro gioca le sue carte migliori.
Storie di provincia, come in Puccio Sterza e la felliniana Cuba Lacrime (donne, balere e romagna), cantate con quella sfrontatezza e quell’ironia cinica e a tratti grottesca tipica di Bobo, ironia che contraddistingue anche Il palloso e l’irresistibilmente feroce Che fregatura è l’amor, suonata con quel gusto retrò anni ’30 e cantata col naso tappato per dare l’effetto dei vecchi 78 giri.
Non mancano certo momenti più riflessivi e intimisti come Bobagi’s Blues e Settimo round, ma è la voglia di divertire e divertirsi che comunque sembra prendere il sopravvento, travolgendo l’ascoltatore con una carica dirompente e un vortice di ritmi e suoni che conserva nel disco tutta l’energia tipica dei live del cantante labronico, mettendo in risalto la fisicità, l’ironia e la personalità multiforme di questo eccezionale artista.
Giacomo Perruzza
Redazione musicale