Due anni fa, col suo album di debutto omonimo, aveva gettato la depressione sul mondo. Ora l’inglesino dal muso lungo fin sotto i piedi, James Blake, è tornato per finire l’opera, sconfortando tutti con un secondo album, Overgrown, che nulla toglie all’autocommiserazione di cui si è rivelato campione incontrastato.
La linea di fondo del primo album ritorna più o meno la stessa anche in questo. Da una parte ci sono beat sparuti che sembrano sempre un abbozzo lasciato incompiuto, qualora siano presenti, dal momento che a tratti Blake è vinto dall’invincibile voglia di lasciar suonare la sua disperazione al piano. E sono dolori veri. Per le nostre orecchie. In ogni caso, la novità rilevante è che in alcune tracce sono ora più sostenuti, quasi a suggerire un ritmo house.
Dall’altra parte c’è la voce. Come al solito infinitamente trattata e modificata. Come al solito piagnucolosa e gemente, mentre frasi prive di sostanza sono spesso lasciate a metà, come il beat, per l’ambizione di comunicare non so quale struggimento cosmico. In realtà gridano solo il nulla della loro incosistenza. Il massimo di spessore che raggiungono si rinviene nella traccia di apertura, Overgrown, dove su un basso pulsante sommerso dai synth, si dice: «I don’t want to be a star / But a stone on the shore». Ma questa è l’ovvietà. Non avevamo dubbi.
Il trattamento della voce, come si annunciava, è spesso eccessivo e, pur volendo essere altamente drammatico, tocca picchi quasi ridicoli nella seconda traccia, I Am Sold, altrimenti guidata da un beat hip-hop, a cui ancora una volta concorrono pulsazioni di basso. La fine, invece, è tutto un bombardamento. Nel rifugio antiaereo di corsa! Subito! Anche perché bisogna scampare alla di poco successiva Take a Fall for Me, preceduta solo da Life Round Here, che scopiazza a Timbaland il beat. Peccato che con gli alti lamenti di Blake faccia a cazzotti.
Torniamo tuttavia a Take a Fall for Me. Non ho alcun dubbio a definirla la peggior canzone che abbia ascoltato quest’anno. Probabilmente Blake credeva che, portata a casa la collaborazione con RZA, si sarebbe fatta da sola, come per magia. Altrimenti non si spiega come mai è musicalmente nulla. Un mezzo beat hip-hop riciclato e qualche sample non fanno testo. Vorrei tacere del rap di RZA per quanto brutto, ma non ce la faccio. Da dove si parte? Dall’orrendo e banale verso su «fish and chips and vinegar» o da quello ancora più brutto sull’«Italian peninsula»? Lasciamo stare. Ridicolo.
Gli handclaps e una pesante linea di synth che tutto ammanta guidano Retrograde, primo singolo, dal crescendo irrefrenabile. Credo rappresenti il massimo di tragicità per Blake. Purtroppo i suoi gemiti, che dal primo secondo infestano la canzone, inducono solo l’insanabile voglia di chiudergli la bocca. Questa cresce ancora di più con DML, la ballata al piano di cui tutti sentivamo il bisogno. A metà non ce la fai più, e dura solo due minuti e ventisei.
Il nome di Brian Eno è associato a Digital Lion. Ma, esattamente, che cosa ha fatto? E soprattutto dove si sente? Aspettando una risposta dall’alto, notiamo intanto un beat martellante abbastanza sostenuto, mentre ci sfugge che cosa ci sia d’interessante a sentirsi ripetere ancora e ancora il titolo della canzone, come se la ripetizione gli desse il significato di cui è carente. Ma poi digital di questi tempi in cui tutto è digitale che vorrebbe dire esattamente? Bah, la canzone dei misteri irrisolti.
La successiva Voyeur, dopo un minuto della solita insostenibile calma piatta, cala giù un beat house in piena regola. Dato lo standard di Blake, è quasi definibile un banger. Per non parlare della coda, pura musica dance. La botta di vita necessaria a sopportare le ultime due tracce, To the Last e Our Love Comes Back, le solite lagne indigeribili. La seconda, segnata dal quanto mai necessario – si fa per dire – piano, è degna conclusione di un album che in copertina riporta la foto, artistica come solo i filtri di Instagram possono renderla, di un ragazzo triste, incappottato e con la faccia da funerale, in un ambiente invernale. Ma è primavera, caro, e dovresti anche sorridere un po’ di più. E su, almeno per una volta, ché hai anche un bel faccino. Cheese.
Luca Amicone
Redazione musicale