L’amarezza di uno show iniziato a porte chiuse. Non posso che registrare questo come primo elemento di apertura della seconda giornata del già partecipatissimo Greentech Festival 2013, che ha visto un Palazzo dei Congressi riempirsi, seppure gradualmente, per l’apertura altamente sofisticata del venerdì, con headliner Gold Panda e Om Unit.
La “chiamata” lanciata ai giovani artisti sul territorio, desiderosi di approcciarsi ad un grande evento, è stata raccolta da progetti in start up o più consolidati, a tracciare una line-up che valeva la pena seguire fin dall’inizio, se le transenne si fossero slacciate dai ganci al momento opportuno.
Arrivo in Sala Galilei, attrezzata a ospitare gli artisti che hanno raccolto l’appello a mettersi in gioco in un “grande evento”, per seguire gli ultimi dieci minuti della molto composita performance dei Machine Overdrive, un quartetto di maniaci dei controlli formatosi in seno al nuovo collettivo radiofonico di Radio Roarr, radio militante e multiforme, che è stata capace di mettere in connessione Chino, Neuro, Sterling, Dadapop e Giada Turini alla parte visuale, per un future sound tutto da sviluppare, un progetto da non perdere di vista.
Le light vibes continuano con il set Escapism del trio Riga (Martino Nencioni, Riccardo Pietroboni e Jacopo Barbaccia), che Paolo Cuomo, aka SpinOff della Fingertips Crew, definiva “un interessantissimo progetto IDM dal suono pulito”, osservazione che sottoscrivo e completo riflettendo sull’incessante ricerca di via di fuga che quelle sonorità mi veicolano.
Poi un repentino passaggio “club”: Fabio nJoy ai controlli, direttamente dal King Club.
Prime considerazioni, in una pausa sigaretta nel cortile esterno: a Pisa e in generale in Italia, non si è ancora escogitato il modo per ristabilire il valore dell’esibizione live che invece in molti paesi d’Europa caratterizza l’atteggiamento del pubblico, per cui, come il giorno prima, gli artisti cominciano a sale semi-vuote: la buona volontà dell’organizzazione non ha saputo comprendere la morìa pasquale di una città universitaria e la disaffezione verso la totalità dell’evento; a caccia del guest straniero, la folla arriverà intorno all’1:00.
Dopo un veloce passaggio di fronte al bar, dove due dj che rimangono ignoti alle cronache stanno scaldando l’ambiente e risollevando l’animo di tutti gli addetti ai lavori, alle prese con i primi cocktail (che nel giro di un’ora diventeranno milioni), entro nell’Auditorium mentre è iniziata l’esibizione di un giovanissimo Francesco Tapinassi, classe ’92 e tante tracce oscure, teutoniche, direttamente dal progetto Atomic Event.
Anche la media anagrafica dei primi avventori si aggira su quell’annata. Si comincia a ballare sul serio, a gomiti un po’ alti. Le facce del pubblico cominciano a contorcersi in uno strano subbuglio del quale non possiamo rintracciare la percentuale di spontaneità o artificio.
Torno in Sala Galilei e le danze continuano; si rafforzano con i Social Kids: basta dare uno sguardo alla loro lunga e importante lista di presenze presso alcuni prestigiosi festival e locali, alla loro fortunatissima recensione su Resident Advisor, alle loro aperture e collaborazioni, al loro frequentatissimo blog, per pregustare il set che quattro dei dodici polpastrelli all’opera in questo progetto metteranno in campo per gli avventori, pisani e non solo.
A chiudere la sessione in Sala Galilei il sound caratteristico della Bosconi Records con Fabio della Torre: house, deep house, bass music, ad alternare momenti di attesa a mani ritmicamente protese al soffitto.
Mi porto all’ingresso del festival con lo scopo di dare un’occhiata alla fila che si è creata per acquistare un paio d’ore di diletto: la fauna è caratterizzata da teste già sui 120 bpm, molte delle quali acconciate e rifinite di rasoio; alto tasso di vestiario revival anni ’90 o più semplicemente agghindo del sabato sera.
Bene, come al solito mi sono vestita da sedicenne in jeans e canotta. E ho pure freddo: è tempo di rientrare.
Nell’Auditorium mi sto perdendo Dantela, il progetto di Fabio Barbini, fortemente connotato da suoni legati ai grandi club italiani, che non tocca troppo le mie corde. Una birra troppo costosa e numerose divagazioni antropologiche assieme agli altri compagni radiofonici ci conducono diretti al set di Yousef, dove esplodono gli animi del popolo della notte: io un pesce fuor d’acqua, il resto si lascia amabilmente trasportare dalla cifra tech-house del dj della Cocoon Records, finchè finalmente anch’io riesco a saltellare, in attesa della faccia massiccia, del cranio lucente dello stoico, imperturbabile, impeccabile Robert Hood.
Scrive di lui Christian Zingales nella sua “bibbia” intitolata Techno (Tuttle Edizioni, 2011): “dopo aver tracciato tutte le coordinate più visionarie della techno minimale, Robert Hood si guarda intorno e incrocia le innovazioni sonore con la tradizione”. Amen. Per un’ora e mezzo siamo in quel Michigan in via di deindustrializzazione che favorì il contatto e la contaminazione tra “musica bianca e nera”, quell’esplosione culturale per cui “George Clinton e i Kraftwerk sono stati chiusi in un ascensore”, come scrive uno dei capofila della techno internazionale, Derrick May.
Robert Hood, chirurgo del suono come un Josè Saramago della scrittura, non ci prende per mano per intraprendere una passeggiata sonora, come poteva essere stato il caso di Gold Panda il giorno prima, ma cala dall’alto atmosfere definite al minimo dettaglio, con il prezioso supporto dei visual curati da Simona Canacci, in arte Zee.
Organizzazione geometrica, in apparenza fortemente alienante, che trova ragion d’essere proprio nel moto perpetuo della cassa e degli intarsi sonori, dai più minimali ai più plastici, ammicchi al passato alternati a slanci futuribili che vorresti suonassero tutta la notte.
La luce bianca che si riaccende, il set che finisce bruscamente, bye bye Detroit, di nuovo a Pisa.
Si può adesso rimirare l’eterogeneità della sala: un buon 20 per cento si muove lungo il muro, scortato da amici e fidanzati premurosi, gambe e petti nudi invitati a ricomporsi dai colossi della security, i caratteristici appelli al bis che dal tipico “Sòna!” si piegano alla nazionalità dell’artista in prorompenti “ONE MORE SONG!”, mentre Robert Hood smonta la consolle con lo stesso fare certosino con cui ha condotto l’intera serata.
Francesca Gabbriellini
Redazione musicale