Chi non ha ancora avuto il piacere di conoscere i Mumford & Sons?
La notorietà di questa band indie folk,nell’ultimo anno, è letteralmente esplosa: il loro secondo album “Babel” (uscito nel 2012) è stato incoronato il migliore dell’anno ai Grammy dello scorso febbraio, sancendo il loro trionfo nel panorama internazionale della musica indipendente.
I Mumford, formatisi nel 2007 a Londra, cominciano la loro ascesa nel 2009 con l’album
“Sigh no more” che contiene “Little lion man”, il singolo che li ha portati alla ribalta lo stesso anno.
Con il loro stile un po’ d’altri tempi e i loro testi che parlano di perdono e nostalgia, questi ragazzi inglesi si sono fatti strada a ritmo country-folk, fino ad arrivare all’apice di quest’anno.
Il gruppo è composto da Marcus Mumford (voce, chitarra e batteria),
Winston Marshall (voce,chitarra resofonica e banjo), Ben Lovett (voce, organo e tastiera) e Ted Dwane (voce e contrabbasso); tutti suonano più di uno strumento e scrivono le loro canzoni sfidandosi al “10 Songs Game”: ognuno di loro scrive 10 canzoni e le incide, successivamente decidono quali pubblicare e inserire nei cd.*
Il tour di questi baldi giovani britannici è giunto in Italia il 14 Marzo scorso: dopo il successo all’Alcatraz di Milano, il 15 erano al Nelson Mandela Forum.
L’atmosfera ricordava molto quella del video di “Little lion man”: piccole luci sospese in aria e,sul palco, questi quattro ragazzi, carichissimi, con i loro fidi strumenti; una cosa molto semplice, ma suggestiva e perfettamente aderente alla loro immagine di quartetto in camicia e panciotto.
Partono in quarta con “Babel” (prima traccia dell’omonimo disco),
il loro successone bello ritmato e danzereccio,con un testo pieno di speranza e voglia di reagire,
poi si passa a “I will wait”, alla risoluta “White Blank Page” e la tristissima “Holland Road”.
Chiaramente parte un pogo assassino quando si fanno strada le note, ma soprattutto il ritmo di “Little Lion Man”: una piccola canzone, essenziale nella parole, ma davvero significativa,
tanto da descrivere perfettamente la pessima condizione di chi è irrimediabilmente vigliacco.
Una dopo l’altra si fanno ascoltare “Lover of the light”, “Thistle & Weeds” e “Ghosts That We Knew”, una canzone piena di accordi nostalgici.
Per questioni che non starò qui a spiegare è stato impossibile non commuoversi quando è venuto il momento di “Where are you know?”, con cui viene riproposto il domandone del secolo:
“Where are you now? Where are you now?Do you ever think of me, in the quiet, in the crowd?”
Fortunatamente ci si riprende in fretta da questa sdolcinata depressione con “Dust Bowl Dance”, per arrivare alla fine del concerto con quella gran canzone che è “The Cave”: un pezzo che per davvero ti fa venir voglia di risorgere e di perdonarti un po’ tutti gli stupidi errori commessi in passato.
In conclusione: gran concerto; peccato per il Mandela Forum che non è proprio l’ideale come acustica e per la divisione del parterre, che si è rivelata piuttosto inefficiente durante l’esibizione.
I Mumford per parte loro sono stati fantastici: energici, comunicativi, interagivano con il pubblico nonostante il loro stentato italiano, davvero dei gran simpaticoni.
Insomma, questi ragazzoni inglesi non si fanno amare solo per le loro canzoni, ma anche per l’energia positiva che ti rimane addosso dopo averli ascoltati e per quella voglia di vivere che ti comunicano, tanto da farti pensare che, da qualche parte, ci sia veramente un posto in cui potrai “Sigh no more”.
Redazione musicale
Eleonora Anastasio
*(Fonte: Exelle di Repubblica, tramite Agnese Caldararo)