Se Armor On (2012) era stata la chiamata alle armi, Goldenheart incomincia la battaglia. Con In the Hearts Tonight, ariosa traccia d’apertura, Dawn Richard dà il segnale («Get ready for war / Put your battle suit on»). Fattasi indiscussa protagonista di un immaginario fantasy simil-medievale, suggerito dalle stesse copertine dei suoi recenti lavori, si presenta come una Giovanna d’Arco in strenua lotta in nome dell’amore.
Già da un rapido sguardo ai titoli, si comprende quanto l’album sia interamente permeato dai motivi della guerra, dello scontro e della battaglia, toccando tutte le corde dell’epica. In Return of a Queen la regina, su ritmo tribale, reclama la sua regalità e cerca la via per tornare al trono. In Break of Dawn si minaccia di continuo il povero malcapitato, che si sospetta sordo per quante volte gli è ripetuto, di non arrivare a vedere la luce dell’alba.
Il titolo di questa canzone mette in rilievo anche il gioco di allusioni e rinvii continui a Dawn stessa, o meglio al suo personaggio, eroina del suo mondo inventato, scorso dai riferimenti più diversi, frullati tutti assieme. Dall’episodio biblico di Davide e Golia (Goliath), da cui si riprende l’immagine della pietra nella mano di chi vuole combattere fino alla fine, a quello classico, ma conosciuto attraverso film e fulmetti – pur sempre di un’americana stiamo parlando –, dei trecento uomini dello spartano Leonida (300).
Va bene che ogni giorno è una battaglia, come detto all’inizio della ballata Warfaire, ma mi pare che almeno un poco si stia esagerando. Il viaggio, infatti, per quanto avventuroso e avvincente possa essere, risulta alquanto sfiancante. Si arriva alla fine stremati come si fosse andati davvero alle crociate. Va tuttavia riconosciuto che la cantante riesce comunque a mantenere in piedi piuttosto bene tutta l’impalcatura, a parte qualche momento eccessivamente sopra le righe.
Passando all’aspetto più puramente musicale, il disco si presenta particolarmente interessante sulla carta e spesso anche nei fatti. Continuando il lavoro intrpreso con Armor On, l’RnB, perché di questo essenzialmente di tratta, viene coniugato, per merito del produttore Andrew “Druski” Scott, con la musica dance, senza tuttavia che quest’ultima prenda il sopravvento. Si passa dall’eurodance dal beat martellante di Riot, in cui nel bel ritornello, la voce robotizzata di Dawn incita alla rivolta, alle sfumature dubstep di Pretty Wicked Thing, il cui basso s’impantana nel fango del campo di battaglia.
La successione delle tracce e il passaggio dall’una all’altra è estremamente pensato e curato. Per esempio, proprio l’ultima canzone citata, che mostra la faccia oscura dell’amore, è incastonata in due tracce, Gleaux e Northern Lights, dagli incalzanti battiti di mano e dai synth frizzanti, dominate invece dal tema della luce, a creare un trittico che è il momento migliore dell’album. In Gleaux la voce di Dawn brilla mentre ci incita a illuminare le tenebre con la nostra luce; in Northern Lights è lei stessa a definirsi «Knight of the Light».
Altro importante punto di riferimento, soprattutto nella seconda parte, è il prog-pop degli anni ’80, tanto che una traccia, che è un po’ una noia, si chiama ’86. I riferimenti a Peter Gabriel si sprecano e In Your Eyes ne è addirittura una quasi-cover eurodance.
In quest’ultima parte molte cose erano evitabili e qualche estenuante ballata di troppo andava sforbiciata, a cominciare da Goldenheart, traccia di chiusura affidata al piano, che proprio non ce l’ho fatta a sentire dall’inizio alla fine. Già sfinito per il lungo combattere, sarebbe stato il colpo di grazia.
Luca Amicone
Redazione musicale