Con il mixtape LiveLoveA$AP (2011) aveva ottenuto l’acclamazione della critica e un contratto da tre milioni di dollari con la Sony. Sul collo il fiato di chi lo aspettava al varco per la prova decisiva, il primo vero album. Le previsioni non erano delle più rosee, dati i continui rinvii dell’uscita, prevista inizialmente per l’anno scorso. Esce invece nel primo mese del 2013, ed è un gran bel disco, Long.Live.A$AP.
Innanzitutto A$AP Rocky sa rappare e lo fa alla grande, cambiando velocità e ritmo con la stessa nonchalance con cui dice le parolacce – basta vedere come segue che neanche un segugio il beat di Goldie. Persino i falsetti sono adorabili. Sta là a dimostrarlo, in apertura, il ritornello dell’eponima Long Live A$AP. E pazienza se qualcuno storce il naso, la verità è che è dannatamente accattivante.
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Poi a produrre c’è gente come Hit-Boy, Clams Casino o, udite udite, Skrillex, che sfornano beat per lo più meravigliosi, di tendenza e contemporanei. Le cadute sono davvero poche. Nella categoria rientra certamente 1 Train, dal noiosissimo e risaputo ritmo anni ’90 che continua all’infinito perché deve coprire i versi di una schiera infinita di rapper, l’acclamato Kendrik Lamar incluso, la cui lista sarebbe più lunga dell’elenco telefonico di Tokyo.
In genere, tuttavia, le collaborazioni funzionano alla grande, anche le più impreviste, come quella con Skrillex. Se soltanto all’idea gridavamo disperati, Wild for the Night non è niente male, risultando un buon esempio di quella relazione tra hip-hop e dance sempre più stretta negli ultimi anni. Srillex non strafà, non spara bassi a caso e si trattiene (se la cosa poteva essere sorprendente fino a qualche settimana fa, non lo è più dopo Leaving – qui la recensione –). E diciamolo, i laser di contrappunto al ritornello sono una delizia.
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Sempre nel campo delle collaborazione, meritano una citazione PMW (All I Really Need) con Schoolboy Q, dai bellissimi cambi di ritmo da un verso all’altro, dallo strascicato al cantato, e Hell, in cui Santigold in assoluta scioltezza tira fuori un ritornello delicato di pura perfezione. L’hook del primo pezzo svela in un verso solo praticamente tutti i temi dell’album: «pussy, money, weed»; che altro sennò? Invece il produttore del secondo, Clams Casino, fa doppietta con LVL, dal beat sparuto perso in un’atmosfera sognante tra echi, sfasamenti e voci tirate verso il basso. Poi ovviamente c’è la stratosferica Fuckin’ Problem, in cui 2 Chainz si occupa del ritornello e lascia agli altri una strofa a testa. Il titolare e Kendrick Lamar vanno forte, ma la scena se la prende tutta Drake, trattando, tra le altre cose, delle dimensioni del suo arnese. Non lo fa spesso, lo dice lui stesso, ma gli riesce a tal punto bene che voglio un’altra strofa così subito.
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L’unico dispiacere è che forse l’album si affloscia un po’ nel finale, almeno nella versione standard, quando cerca una certa qual atmosfera come in Phoenix o nella più inquitante Suddenly. Nella prima esce pure un malinconico piano. No, dico, il cavolo di piano per favore no. Poi il beat, se c’è, perché non è detto, è di una noia che fa calare la palpebra.
Per fortuna a svegliarti ci sono nell’edizione deluxe gli hi-hat delle quattro canzoni in più, o meglio tre, perché l’ultima facciamo finta che non ci sia. L’inutile comparsata di Florence Welch (I Come Apart) per una trita canzone hip-hop da classifica meritava di rimanere blindata nel cassetto. Molto meglio quella di Gunplay in Ghetto Symphony, che campiona Hymogen Heap (eh?) come pure l’ancora migliore Angels, che mischia il suono dei tasti di un telefono, carillon e «call me call me» in falsetto. Olé. Ci ricordiamo che A$AP è davvero forte.
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Girando tra i mille marchi di moda – così tanti neanche in Sex and the City considerando tutte le stagioni e i film messi insieme – della stupenda Fashion Killa, dal beat intessuto di sample vocali come swarowski, avevamo notato che è pure stiloso.
Long live A$AP.
Luca Amicone
Redazione musicale