Mi sono affezionato ai Concerti della Normale. È incontestabile: questa rassegna sta davvero regalando alla città degli “incontri” straordinari. Nel caso della nostra radio, l’ultimo “incontro” è stato più concreto che metaforico: siamo andati a fare la conoscenza di Grigory Sokolov, una delle più forti personalità del pianismo russo del nostro tempo.
Per quanto sia stato già ospite della stagione scorsa de “I concerti della Normale”, il concerto di martedì scorso è stata la prima occasione in cui ho ascoltato Sokolov al Teatro Verdi. L’avevo già visto presso il Teatro Politeama di Palermo in due occasioni, durante le stagioni organizzate da “Gli amici della musica”, e di quei due concerti conservo ancora dei ricordi molto nitidi.
A Pisa è successo quello che non mi sarei mai aspettato. L’organizzazione ci ha concesso di fotografare l’artista durante le prove. Ho avuto così il privilegio di ascoltare in anticipo il repertorio previsto per la serata e di rimanere per oltre tre quarti d’ora da solo con il maestro che, sul palco, suonava come se avesse di fronte una platea gremita. Il teatro completamente deserto. Sembrava quasi un reato disturbare con il click dell’otturatore la magia del momento. Ho scattato meno foto del previsto, gustandomi appieno l’evento. Nel silenzio totale e nella vicinanza è stato possibile ascoltare Sokolov mentre canticchiava eseguendo la Sonata in La minore K310 di Mozart. Mi ha ricordato un particolare un po’ eccentrico di Glenn Gould, il quale cantava persino durante le incisioni.
Il momento estatico coglie Sokolov sin nelle prove, c’è solo lui e lo strumento. Quando, intorno alle venti e trenta, si sono fatti vivi sul palco l’accordatore e la direttrice di palco per ricordargli che era tardi e il concerto doveva iniziare, il maestro ha ignorato la loro esistenza. Non ha sentito neanche quando gli parlavano a meno di un metro di distanza. Vedere questa scena da sottopalco è stato quanto mai illuminante per capire il legame che esiste tra un artista e il suo strumento.
Le nove sono arrivate in fretta, e così Sokolov ha fatto nuovamente il suo ingresso sul palco del Verdi, stavolta di fronte ad un teatro stracolmo in tutti i settori. Due lavori settecenteschi hanno caratterizzato la prima parte del programma: il virtuosistico Jean-Philippe Rameau dei Pièces pour clavecin, cui appartiene la suite di pezzi caratteristici eseguita da Sokolov, insieme al Mozart drammatico della Sonata K310, una delle poche scritte in tonalità minore, dove non rimane più traccia dello spirito salottiero di altre pagine pianistiche. Interessante è stato l’esperimento di affidare al pianoforte il pezzo di Rameau che nasce appositamente per i mezzi espressivi tipici del clavicembalo. Mentre il rigore classico della sonata mozartiana rivela sottotraccia il dramma della perdita materna, che Mozart subì in occasione del tour parigino del 1778.
La seconda parte è stata affidata alla Sonata in Si bemolle maggiore op.106 di Ludwig van Beethoven, detta anche semplicemente Hammerklavier. Un’opera che potremmo definire senza dubbio “futurista”. Ha proporzioni gigantesche, una cinquantina di minuti in 4 larghi movimenti, e pone infiniti problemi all’esecutore (è di difficoltà estrema, soprattutto la tremenda fuga finale), nonché all’ascoltatore. Questa sonata in alcuni momenti è una vera e propria esplosione di energia, con accordi brutali, cavalcate che vanno delle note più gravi a quelle più acute. Niente rotondità classicheggianti per una pagina pianistica che passa da linee melodiche sospese sino a grumi di suoni oscuri.
Per esempio, il quarto movimento, “Largo – Allegro risoluto: Fuga a tre voci”, contiene una sorta di lento recitativo introduttivo che sfocia in una difficile e lunga fuga, realmente ardua e problematica per l’esecutore, in quanto necessita di alte risorse tecniche e di non poca maturità musicale. Dal punto di vista accademico l’uso del contrappunto è ineccepibile, ma la fuga a tre voci trascende da tutto questo, per portare l’opera avanti di un secolo e mezzo. E Sokolov conosce bene le potenzialità di questa pagina, al punto tale da da inserire alcune licenze novecentesche in quest’ultimo movimento. Ciò che sorprende è che l’intera opera lascerebbe esausto qualsiasi pianista di alto livello, invece Sokolov era fresco come una rosa.
Deve in effetti aver stipulato un patto con il demonio se, dopo un concerto così lungo (che si conclude a mezzanotte meno un quarto), incurante della stanchezza, accoglie gli applausi a scena aperta che gli arrivano dal pubblico del Verdi e si concede in ben sei “fuori programma”. Vidi questa stessa attitudine generosa al Politeama di Palermo, in cui contai addirittura sette pezzi.
Nel fuori programma pisano si potevano riconoscere Preludio in Si minore di Bach-Siloti, l’Intermezzo op. 117 n. 2 di Brahms e i Preludi n.4 e n. 20 di Chopin. Come era accaduto a Palermo, durante gli ultimi fuori programma parecchia gente si era allontanata dal teatro, ma è rimasto almeno un centinaio di “integralisti” ad applaudire il Maestro e a chiedere ancora altri bis. Il concerto è finito a mezzanotte e un quarto. Sokolov si è presentato altre due volte sul palco per ringraziare il pubblico che continuava ancora ad applaudire. Aveva un volto soddisfatto, i lineamenti sereni, come di chi ha concluso l’ennesimo rito per acquisire l’eterna giovinezza. Quell’epiteto di pianista dal volto di pietra è più una leggenda che la realtà, rivelando invero di possedere una generosità e un’umanità estrema. In ogni concerto ho visto quest’uomo portare tutta la sua vita sul palco.
Giuseppe Flavio Pagano
Redazione musicale
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