AIDS, 29 anni dopo.

Nel mondo ci sono circa 34 milioni di persone che convivono con l’HIV. La storia è cominciata ufficialmente 29 anni fa, quando il primo dicembre 1981 venne diagnosticato il primo caso di Aids, o sindrome da immunodeficienza acquisita. Già l’anno dopo la scoperta i casi di Aids negli Usa furono 1.614, e in poco tempo in tutto il resto del mondo si cominciano a segnalare pazienti affetti da questa nuova e strana piaga.

Più di 25 milioni sono le vittime mietute dalla malattia fino al 2007, due milioni solo nel 2012, cosa che ne fa a tutti gli effetti una delle più letali della storia. I dati più preoccupanti sono, si sa, quelli relativi all’Africa, ma anche all’America Latina e alla parte più povera dell’Asia. Unaids, il Programma dell’Onu per coordinare l’azione globale contro l’Aids, stima nel suo rapporto che circa un adulto su 20 sia portatore della malattia nell’Africa sub-sahariana. Il veicolo di diffusione prevalente per la malattia è il rapporto sessuale non protetto, che in questi paesi è estremamente comune: per questa ragione molte campagne umanitarie, tra cui quella dell’Onu, hanno cercato di favorire l’adozione di questo genere di pratiche preventive da parte degli abitanti. In questo senso si cerca, oltre che di distribuire profilattici, di educare la popolazione ad un comportamento più consapevole e a fornire cure avanzate. Soprattutto nei paesi poveri, questa via si dimostra la miglior arma per combattere il male.

Laddove queste politiche sono state portate avanti, i successi non sono mancati: la terapia farmacologica ha salvato, dal 1995 ad oggi, più di 14 milioni di vite nei paesi sottosviluppati e il suo utilizzo ha permesso di ridurre il tasso annuo di nuovi infettati. Dal 2001 al 2009 l’incidenza del virus è diminuita del 25 per cento in 22 paesi subsahariani, in India e nel sud est asiatico; parallelamente anche la percentuale di morti si è ridotta, fino al 20%. E questo, oltre che sulla salute, ha avuto effetto positivo anche sulla possibilità di trovare un impiego, e dunque indirettamente sull’economia locale.

Altri metodi di contagio,poi, sono tutti quelli dove avvengano scambi ematici: l’uso di strumenti chirurgici non sterili, trasfusioni da malati o lo scambio di siringhe tra tossicodipendenti, per esempio. È bene ricordare invece che in nessun modo i contatti personali quotidiani possono portare alla trasmissione: spesso i malati sono stati emarginati per paura, ma in realtà, al di fuori dei casi sopracitati, non vi è rischio di infezione che possa compromettere una normale vita sociale. In nessun caso infatti può avvenire contaminazione con saliva, mucose, sudore, o altre secrezioni in cui non sia presente il sangue.

Questi risultati ci ricordano come, seppur ci sfugge la conoscenza per debellare l’Aids, si siano fatti moltissimi passi avanti verso questo obiettivo. Anzitutto se ne comprende meglio il funzionamento: è una patologia infettiva che distrugge il sistema immunitario, ovvero le difese dell’organismo contro malattie ed infezioni. Privi di tale protezione, si è vulnerabili all’attacco di virus e batteri, come per esempio quelli responsabili della tubercolosi (oggi il 25 per cento dei decessi per tbc riguarda pazienti sieropositivi). In pratica, il virus si introduce in specifiche cellule dell’organismo umano che svolgono importanti funzioni nel sistema immunitario. Qui inserisce il proprio codice genetico e induce la cellula a creare altre copie del virus. Una volta terminato il processo, la cellula ospitante viene distrutta e le nuove copie liberate, pronte per attaccare ancora.

La svolta per la comprensione di questi meccanismi è arrivata nel 1984, quando L. Montagnier e F. Barre-Sinoussi hanno isolato e coltivato cellule dai pazienti, identificando il virus dell’immunodeficienza umana (HIV) responsabile della malattia. Da allora molti altri progressi sono stati fatti. Si è fatta luce sull’origine del morbo, presumibilmente nato come malattia tra i primati (virus SIV), e solo successivamente mutato saltando da una specie all’altra. Proprio lo scorso anno, il genoma del SIV è stato decodificato, aprendo le porte a nuovi studi. Obiettivo ultimo degli scienziati sarebbe la produzione di un vaccino, campo verso cui sono indirizzati moltissimi studi, ma che finora non ha prodotto risultati definitivi (esiste un prototipo sperimentale testato in Thailandia, ma con un’efficienza di appena il 30%).

Ad oggi, le migliori difese sono dunque l’informazione e la prevenzione, che consentirebbero di ridurre drasticamente, se
non azzerare, il numero dei nuovi malati.
Ma anche per chi contrae la malattia, la situazione è decisamente migliorata. Un semplice test del sangue permette di diagnosticare l’infezione in pochi minuti e, cominciando le terapie entro poco tempo dal contagio, si ottengono ottimi risultati: per quanto impossibile guarire del tutto, i trattamenti antiretrovirali (essenzialmente combinazioni di farmaci che rallentano la comparsa e limitano gli effetti collaterali della malattia) possono garantire una vita abbastanza tranquilla e di durata normale. Non solo: con adeguate cure, è anche possibile consentire alle donne portatrici di partorire bambini sani nel 99% dei casi, evitando così il fenomeno dei nati già sieropositivi, drammatico soprattutto in Africa.

Unico problema di queste cure è il loro prezzo: troppo costose per essere utilizzate da tutta la popolazione, soprattutto nei paesi più disagiati. Da qui la fondamentale rilevanza dell’approccio preventivo. Dal 1 dicembre 1988, prima giornata mondiale contro l’Aids, molto è stato fatto in termini di profilassi. Oltre ai già citati preservativi (purtroppo ancora incredibilmente respinti dalla Chiesa, che ne condanna l’uso persino in paesi flagellati dalla malattia), l’uso di strumenti sterili negli ospedali è diventato standard, ed ogni trasfusione viene ormai sempre controllata contro la presenza di HIV.

Dopo tutti questi trionfi, c’è un dato che lascia scioccati: negli Usa e in Europa occidentale l’incidenza delle infezioni è rimasta quasi invariata. Causa principale è la crescente indifferenza, soprattutto tra i giovani. Ritenendo il problema appannaggio di paesi lontani o categorie ben precise di persone, come prostitute o omosessuali, molti non si preoccupano di adottare comportamenti sicuri, né di sottoporsi ai test in caso di dubbio. In questo gioca un importante ruolo proprio la cattiva qualità dell’informazione: se la malattia viene associata a categorie emarginate o discriminate, si è propensi a sottovalutarla, o a non curarla per la vergogna di dichiararsi infetti. Proprio per questo molte associazioni e agenzie, nazionali ed internazionali, cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica. In Italia per esempio, la LILA promuove iniziative di raccolta fondi ed informazione.

In questo contesto, e dopo aver letto i dati che abbiamo riportato, sembrerà assurdo che esistano tutt’oggi i “negazionisti”, che sostengono l’inesistenza della malattia. Elencare le loro argomentazioni sarebbe lungo, ma basti sapere che questi “illuminati” sono sempre stati smentiti dagli esperimenti e dalla comunità scientifica (oltre che dai milioni di malati e morti in tutto il mondo). Teorie di questo genere sono estremamente dannose: la diffusione di false speranze che spingono ad abbandonare le cure o a sminuire l’importanza e l’autorevolezza della ricerca, è  un comportamento irresponsabile, se non criminale. In proposito, sarebbe bene ricordare le imbarazzanti dichiarazioni fatte da certi leader italiani in passato. Un esempio? In uno spettacolo del 1998, “Apocalisse morbida”, Grillo ha definito l’Aids come “la più grande bufala di questo secolo”, negando l’esistenza dell’HIV.

Che nel 2012 certe affermazioni siano tollerate dall’opinione pubblica, di fronte a milioni di morti e a milioni di pazienti salvati, è segno di quanto ancora arretrata sia l’educazione scientifica (ma non solo) nel nostro paese.

Alberto Ciarrocchi per the Scientist

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