[RECENSIONE]: Vessel – Order of Noise

Con colpevole ritardo mi appresto a recensire Order of Noise di Vessel. Il recupero mi pare necessario sulla scia dell’articolo di Angus Finlayson (qui per leggerlo su FACT) che vede in lui e in Mark Fell due tentativi di opporsi alla pericolosa ossessione nei confronti del passato che caratterizza, in particolare, la musica dance e, in maniera più generale, la musica contemporanea tutta. Questa, infatti, riciclando continuamente se stessa, si sta divorando. La tendenza è talmente vasta che proprio l’anno scorso Simon Reynolds ha dedicato all’argomento un libro intero, Retromania, che, en passant, consiglio caldamente. È proprio da questa prospettiva che vorrei tentare d’inquadrare l’album.

 

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Innanzitutto va detto che Vessel è uno dei tanti pseudonimi dell’inglese di Bristol Seb Gainsborough, parte del collettivo Young Echo. Finlayson, il cui assunto di base è in qualche modo condiviso anche da Rory Gibb (qui), considera Vessel una sorta di iconoclasta che punterebbe, mediante l’applicazione del linguaggio lo-fi alle dinamiche della musica dance, a scombussolare il familiare e scombinare l’aspettato, creando un suono grezzo e degradato.

Senza dubbio, a un primo ascolto, è proprio questo aspetto a colpire. Su un sostrato corposo di sub-bassi, tutto è offuscato e quasi consumato dai fruscii e dagli sfrigolii, tutto si sfalda e si perde tra i riverberi e tra gli aloni, tutto è sporco e ruvido, quasi a voler contrastare la produzione impeccabile, estremamente pulita e definita, di tanta musica elettronica dei giorni nostri. Qui, infatti, tutto pare sempre informe e ogni cosa sull’orlo dello sgretolamento, mentre tra i synth sommersi riverberano voci lontante, suoni e rumori che vengono da chissà dove, a cominciare dalla breve traccia di apertura Vizar. A tratti disorientante, è vero, ma, in sincerità, non così sorprendente.

 

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A un ascolto più attento, tuttavia, emerge un aspetto più sottile e di sicuro più interessante. Concentrandosi sul ritmo, ci si accorge di infiniti e continui microcambiamenti nel beat, che pare sempre informe, mancante di una configurazione precisa, soggetto alla possibilità di una continua metamorfosi, non così evidente come in Mark Fell, ma più sotteranea, quasi impercettibile, sia nell’andamento sia nella sostanza e qualità del suono stesso. Questo mutamento, per lo più imprevedibile, può essere continuo come nella bellissima Stillborndub, o giungere improvviso a partire da un determinato momento come nell’appena precedente Images of Bodies. Tracce che, comunque, non paiono potersi catalogare sotto l’etichetta “house”, neanche considerandola nel senso più ampio, come vorrebbe Finlayson: Vessel prende infatti da più parti (techno, dub e IDM soprattutto) vari elementi, che, decontestualizzati, accosta spesso con vigore industrial, quasi a voler distruggere la stessa musica da cui parte e si ispira, come nel caso di Scarletta, in cui il beat scarica come una mitragliatrice, si aprono crepe e il synth scricchiola.

 

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Sempre a proposito della parte ritmica, notiamo ancora che a volte questa può essere, per quanto impercettibile, presente ma al contempo assente, o viceversa, perché quasi implicita, come in Aries. Altre volte invece si inabissa e poi riemerge con vigore aumentato come in Court of Lions, una delle ultime tracce e una delle migliori, che dimostra anche come il beat possa, al contrario, incepparsi e far fatica come un ingranaggio difettoso.

L’altra caratteristica importante della musica di Vessel è che, pur avendo come presupposto e punto di riferimento la musica dance, è in definitiva poco ballabile, se non in rari momenti, quali la solita Court of Lions o Lache, durante la quale per lo meno si è portati a muovere la testa, o ancora in Plane Curves, l’unica traccia che vanta un beat compiutamente tradizionale e per questo meno sorprendente. Così è sicuramente appropriata per questo tipo di produzioni la definizione, data da Nick Neyland (qui), di «non-dance dance music».

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Order of Noise è, in conclusione, un album altamente interessante nei presupposti, perché scaturisce dall’intenzione di incidere sulle strutture profonde della dance music, riuscendo quanto meno a destrutturarle. Infatti, sebbene la pars destruens di questo processo appaia compiuta, il percorso verso la ricostituzione in qualcosa di effettivamente nuovo e sorprendente appare tuttavia non ancora intrapreso e di là da venire. Insomma, siamo ancora lontani, chissà se poco o tanto, da ciò che Reynolds chiama «shock of the new».

Luca Amicone

Redazione musicale

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